Sono quattro gli elementi che fanno un “orso vero”, scavando un abisso tra animali selvatici e in cattività
Nell’ambito della ricerca sul turismo genericamente basato sulla valorizzazione degli spazi naturali, esistono pochissime ricerche che esplorino i modi in cui i turisti percepiscono la fauna selvatica in termini di “autenticità”.
Per percezione in questo contesto si intende il modo in cui i visitatori di un’area protetta o di una zona di particolare valore naturalistico, interpretano la loro esperienza inserendola in una narrazione significativa e duratura. In altri termini, in un discorso su ciò che hanno visto, vissuto, imparato venendo a contatto con gli animali selvatici di quel determinato contesto. Qualcosa che, per loro, abbia un senso. Fermo restando che ogni “autenticità” va comunque immancabilmente ricondotta ad un’idea di natura come costruzione sociale, per cui il concetto stesso di cosa sia autentico e cosa non lo sia – nonché l’idea stessa di una dicotomia di questo tipo – è già di per sé, a monte, un prodotto culturale, e dunque mutevole. In generale, questo significa che quello che un visitatore trae dall’incontro con un animale selvatico è orientato, o condizionato, dalla specifica idea di natura e selvaticità in cui si riconosce.
Tornando a noi, perché questo potrebbe essere importante? Per un motivo molto semplice: perché le esperienze fatte dai turisti con gli animali selvatici sono spesso legate a messaggi di conservazione, per cui l’autenticità percepita ha un effetto non solo sul giudizio – positivo o negativo – circa la qualità dell’esperienza turistica ma può giocare un ruolo importante anche per il successo delle strategie di conservazione a lungo termine e della loro applicazione in concreto.
Conservazione in Trentino occidentale e nelle valli del Parco Adamello Brenta significa soprattutto strategie di gestione legate alla presenza dell’orso nella forma di percorsi praticabili di coesistenza con le attività umane e di sostenibilità sociale. Occorre, dunque, che l’idea di cosa sia “un vero orso”, un orso autentico e dell’ambiente che lo ospita sia, in qualche modo, guidata con l’obiettivo di facilitare il raggiungimento degli obiettivi gestionali individuati.
Creare le condizioni di una narrazione in cui i turisti sperimentano un legame “autentico” con gli animali – e non è affatto necessario favorire incontri diretti per questo, al contrario – può potenzialmente creare maggiore consapevolezza e, di conseguenza, aumentare la diffusione di buone pratiche di comportamento e l’accettazione di scelte gestionali, anche difficili, da parte dell’amministrazione, restando comunque all’interno di una cornice positiva di senso. Questo riguarda anche il capitolo “pericolosità”, erroneamente giocato come fattore critico e disincentivante per il settore turistico e che invece può essere ricondotto nell’alveo di un quadro più articolato, se non proprio normalizzato, di relazioni col mondo selvatico. In altri termini, se entro in un bosco abitato dall’orso adotto “naturalmente” comportamenti conseguenti sfumando la cornice ansiogena e securitaria in cui spesso oggi questi comportamenti si trovano intrappolati.
Gli elementi cardine di questa narrazione nel segno dell’autenticità sono infatti da una parte il “riconoscimento dell’autonomia e dell’alterità degli animali” , dall’altra un’idea di natura non-addomesticata – che poi è il filo rosso delle attività di un’area protetta come il Parco Adamello-Brenta – che si tiene comunque alla larga dai rischi di un’idea di natura incontaminata e che comunque ha già in sé l’idea di gestione attiva (legittimità delle azioni di dissuasione, protezione sociale, allontanamento di esemplari confidenti, dannosi o pericolosi).
Questo significa che l’autenticità ha poco a che fare con la vicinanza o lontananza dagli spazi antropizzati e che invece, al contrario, incorpora in qualche modo gli intrecci interspecifici tra umani e selvatici – in tutte le loro possibili declinazioni – nel novero delle possibilità. Nello specifico, poi, autonomia di un animale, e soprattutto di un orso, significherebbe promuovere presso il pubblico l’idea di autonomia spaziale (l’animale può muoversi liberamente), di autonomia soggettiva (l’animale può esprimere la propria natura), di autonomia energetica (l’animale può agire per sé stesso) e di autonomia sociale (l’animale può formare reti “sociali”) come discriminanti qualitative.
Sono questi quattro elementi che fanno di un orso un “orso vero” e che scavano un abisso incolmabile tra gli orsi selvatici del Trentino Occidentale e gli orsi in cattività del Parco faunistico di Spormaggiore o di uno dei tanti Santuari degli Orsi che si trovano in Germania o in Romania. E così: la capacità di un orso di giocare riflette la sua condizione soggettiva e sociale, la possibilità teorica di un incontro con un escursionista riflette le sue condizioni spaziali, mentre il potenziale di pericolosità riflette la sua condizione energetica, al riparo però da percezioni distorte.
Fermo restando che questi elementi, al limite, non devono riflettere necessariamente la condizione reale di tutti gli orsi in Trentino quanto piuttosto il modo in cui il turista, il visitatore, li percepisce. Ciò detto, torniamo alla domanda iniziale: la promozione di questa idea di “autenticità” – che si traduce in maggiore consapevolezza e dunque in maggiore disponibilità all’ascolto e in maggiore responsabilità – può giocare un ruolo positivo nella costruzione collettiva di un nuovo paradigma del rapporto uomo-orso nelle valli trentine? Può fungere da volano positivo in un’ottica di conservazione a lungo termine della specie e – cosa più importante – di abbassamento della soglia di rischio nelle interazioni uomo-orso? Molto probabilmente sì, quantomeno a livello di efficacia della comunicazione all’interno del comparto turistico. In sintesi: alla promozione dell’orso “animale bello” e carico di significati simbolici del lavoro Apollonio-Tosi del 2011 come veicolo di recupero di un’attenzione più equilibrata e positiva verso la specie (“Approfondimenti tecnico-scientifici sulla gestione della popolazione di orsi in Trentino e sulla sua sostenibilità”, Trento, 2011, pag.99), andrebbe sostituito l’orso “autentico”, con un duplice vantaggio. Il primo: di muoversi al di fuori di una dimensione estetica della sua presenza avvicinandosi invece alle dinamiche, più complesse, della biologia della conservazione. Il secondo, e qui invece in piena sintonia col sopracitato lavoro Apollonio-Tosi: di marcare in modo netto le peculiarità del “selvatico”, in cui la differenza e l’alterità diventano il vero valore aggiunto.
Scrivevano infatti Apollonio e Tosi: “In termini culturali, preme inoltre evidenziare come un ulteriore aspetto della problematica possa essere rappresentato dall’attitudine dell’uomo a considerare la natura sempre più come un giardino ordinato e privo di pericoli oggettivi, piuttosto che come un complesso sistema che contiene una molteplicità di forme di vita con un ruolo non solo estetico. In altre parole, è ipotizzabile che sia in atto una modificazione culturale che sta allontanando l’uomo dalla vera natura, di cui si tende sempre più ad accettare i soli aspetti ludico ricreativi, rifiutando quelli che, pur di rilevanza ecosistemica, vengono percepiti come fastidiosi o “inutili”. In questo contesto l’orso potrebbe proprio rappresentare una “natura diversa” rispetto alle aspettative di molti che, pur dichiarandosi dalla parte della natura e della fauna, la rifiutano nella sua essenza primordiale” (pagg. 53-54).
Quest'articolo è stato pubblicato col titolo "Dall’orso bello all’orso autentico" ne I nuovi fogli dell'orso del Parco naturale Adamello Brenta