Cosa possiamo imparare dalla Slovenia sulla “alimentazione diversiva” agli orsi
È di qualche settimana fa la notizia che in Slovenia il mancato prelievo della quota di caccia degli orsi bruni ha portato alla contrapposizione tra chi sostiene la necessità di contenere la crescita della popolazione, e quindi una maggiore frequentazione dei centri abitati e chi, ricorrendo alla Magistratura amministrativa, ha invece bloccato il prelievo stesso.
Al di là delle considerazioni, favorevoli all’una o all’altra posizione, l’esperienza slovena evidenzia due dati di fatto:
- l’alimentazione diversiva, ovvero la fornitura di cibo supplementare agli orsi, aiuta a tenerli lontani dai paesi;
- l’integrazione alimentare stimola un concreto aumento della loro popolazione.
Le pubblicazioni scientifiche in merito si dividono tra favorevoli e contrarie a tale pratica ma è la storia a confermarne la validità.
Agli inizi del 900, a causa dell’eccessivo prelievo venatorio, la popolazione ursina della Slovenia si aggirava intorno ai 40 esemplari, una situazione analoga a quella che si riscontrava nell’Appennino centrale prima dell’istituzione del Parco nazionale d’Abruzzo. Successivamente la sospensione dell’attività venatoria e opportune politiche di gestione, tra le quali il foraggiamento, hanno portato la stessa a quadruplicarsi, già nei primi anni Cinquanta, fino ad arrivare ai livelli odierni.
La Slovenia meridionale, in particolare le province di Notranjska e Kočevska, ospita una popolazione di circa 800 esemplari distribuiti su circa 6.000 kmq, con una densità monstre di 13 individui ogni 100 km2 (quella dell’orso bruno marsicano si ferma a 4 individui ogni 100 km2). Una presenza che attraverso le attività collegate al turismo naturalistico, fotografico e venatorio, genera un importante reddito per le comunità interessate.
Ovviamente nessuno ipotizza, neppure lontanamente, una gestione venatoria del nostro orso bruno marsicano: non la consentirebbero l’etica, il valore culturale e scientifico della sottospecie né, tanto meno, i numeri. Riteniamo però di poter prendere spunto da queste evidenze per caldeggiare la modifica di alcuni aspetti della sua gestione.
Una integrazione alimentare somministrata esclusivamente nei periodi necessari (come fu realizzato seppure in misura limitata, ma con apprezzabili risultati, negli anni ‘80-’90) potrebbe, oltre che tenere l’orso lontano dai guai, promuovere quella “spinta riproduttiva” necessaria a una popolazione sofferente e a perenne rischio di estinzione. Altrimenti sarà l’orso stesso, come già fa, a provvedere autonomamente razziando rifiuti antropici dall’alto potere calorico.
Lo spettacolo di un orso, simbolo della natura selvaggia, con una busta di rifiuti che pende dal muso è un duro colpo alla dignità dell’animale e a quella della comunità responsabile della sua tutela.
Un concreto aumento della consistenza numerica, favorito dall’alimentazione supplementare, ne faciliterebbe la diffusione in altre aree vocate dell'Appennino. Pensiamo ad esempio al nascente e contiguo Parco nazionale del Matese con i suoi quasi 100.000 ettari scarsamente antropizzati.
Un aumento delle femmine consentirebbe inoltre di contrastare la loro tendenza filopatrica, ovvero la riluttanza a spostarsi dalle aree dove svernano e si riproducono. Numeri più alti permetterebbero di programmare ed effettuare, con maggiore tranquillità, la traslocazione di femmine lungo le linee di dispersione dei maschi facilitando così la colonizzazione di nuove aree, dinamica indispensabile alla sopravvivenza della popolazione appenninica.
Nel frattempo si riterrebbe utile incrementare la potenzialità trofica delle zone frequentate dall'orso offrendo varietà e diversificazione delle fonti alimentari attraverso piantagioni di essenze fruttifere arboree e arbustive, in particolare lungo i corridoi di connessione tra le aree protette.
Nel ringraziare per l’attenzione i destinatari della presente nota, detentori dei poteri decisionali, ci permettiamo infine di tornare a ribadire la necessità di realizzare, finché in tempo, una banca genetica dedicata all’orso bruno marsicano, il cui costo sarebbe praticamente nullo, comunque senz’altro irrisorio rispetto all’urgenza di preservare un patrimonio unico al mondo.
di Corradino Guacci, presidente della Società italiana per la storia della fauna