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Ogni anno nel mondo scompaiono 100 milioni di ettari di suolo sano, un’area pari all’Egitto

Da mare della morte a oasi verde: nel Kubuqi il fotovoltaico rigenera il suolo dal deserto

Ogni dollaro investito nel ripristino del suolo può generare fino a 27 dollari di ritorno: in Mongolia oltre 500.000 ettari di deserto sono già stati rigenerati grazie alle solar farms
 |  Territorio e smart city

WUHAN. Una buona notizia giunge dall’Asia: il deserto di Kubuqi, in passato conosciuto come il “mare della morte” in Cina per via delle sue caratteristiche geofisiche (vedi le dune mobili e le ricorrenti tempeste di sabbia), oggi è diventato un simbolo di rinascita e speranza per il futuro della vita sul nostro pianeta. Durante il 10° Kubuqi International Desert Forum, che si è svolto a Ordos con la partecipazione di esperti, funzionari, scienziati e imprenditori provenienti da tutto il mondo, la sua metamorfosi positiva è stata la tematica centrale. L’evento è stato co-organizzato dalla Convenzione delle Nazioni Unite per la lotta alla desertificazione (Unccd), dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep), dall’Amministrazione nazionale cinese per le foreste e le praterie e dal Governo della Regione autonoma della Mongolia interna (国家林业和草原局、内蒙古自治区政府), con il focus “Combattere la desertificazione con la scienza, promuovere lo sviluppo verde”.

Francamente è purtroppo possibile osservare che il contesto globale che ha fatto da cornice al Forum è spaventoso, poiché il degrado del suolo procede velocemente, minacciando già il 40% del suolo terrestre globale e colpendo metà dell’umanità. Ogni anno scompaiono 100 milioni di ettari di suolo sano, un’area pari all’Egitto, con perdite economiche stimate in 900 miliardi di dollari dovute a desertificazione, siccità e degrado.[1] La scarsità d’acqua, già oggi è più evidente rispetto al 2000 provocando oltre 300 miliardi di dollari di danni annui e, cosa molto grave, se la tendenza non sarà invertita, entro il 2050 tre persone su quattro nel pianeta ne subiranno le conseguenze.[2] Tuttavia, i dati mostrano che soluzioni esistono: ogni dollaro investito nel ripristino del suolo può generare fino a 27 dollari di ritorno, rafforzando la sicurezza alimentare, creando nuove opportunità occupazionali e aumentando la resilienza delle comunità agli shock climatici5.

È in questo scenario che il “modello Kubuqi” assume un valore planetario. Infatti, nell’arco di tre decadi, oltre 500.000 ettari di deserto sono stati rigenerati, con la creazione di foreste e vegetazione nuove che hanno letteralmente e, soprattutto, efficacemente sostituito sabbia e polvere, moderando l’impatto delle tempeste e stabilizzando la salute dei suoli6. Integrando scienza e politiche pubbliche con partecipazione comunitaria, la strategia adottata dimostra chiaramente che anche un “mare di sabbia” può tornare fertile e produttivo.

Centrale è stata l’adozione dell’approccio innovativo “fotovoltaico + controllo della desertificazione”.[3] Attraverso la costruzione di solar farms realizzate su terre degradate si riesce a produrre energia pulita, oltre a creare microclimi favorevoli alla crescita delle piante che stabilizzano il terreno e riducono l’evaporazione dell’acqua. Inoltre, queste farms costituiscono nuove fonti di reddito per le comunità che in passato erano ridotte a un mero stato di sopravvivenza, e in condizioni di estrema povertà. 

Questo modello ha già raggiunto degli obbiettivi fondamentali, ossia: ha permesso di generare energia pari a miliardi di kWh; risparmiare milioni di tonnellate di carbone; evitare emissioni per quasi quattro milioni di tonnellate di CO₂ all’anno ed espandere la vegetazione sotto e attorno agli impianti fotovoltaici.

In questa prospettiva, durante il Forum, Yasmine Fouad, Segretaria esecutiva dell’Unccd, ha rammentato che “Kubuqi insegna che ripristinare il suolo significa ripristinare dignità. Significa oltre 100.000 posti di lavoro, nuove industrie che sostengono le famiglie e comunità che non vedono più il deserto come un avversario ma come un partner per il loro futuro”.[4] Seguendo le parole del rappresentante dell’Unccd, si può comprendere che il “modello Kubuqi” è una trasformazione che nasce dall’unione di governi, imprese e comunità locali, capaci di agire insieme per un obiettivo comune posto al di sopra delle parti interessate.

Il successo del Forum risiede anche nella sua dimensione internazionale. Delegati provenienti da regioni duramente colpite dalla desertificazione, come la Mongolia, il Sahel africano e l’America Latina, hanno avuto l’opportunità di condividere esperienze e pratiche di rigenerazione, potendo dimostrare come la cooperazione sia necessaria. In particolare, la Mongolia ha presentato la sua iniziativa strategica per piantare un miliardo di alberi entro il 2030.[5] Altri leader provenienti dall’Africa e dall’America Latina hanno sottolineato l’importanza dell’uso di tecnologie innovative che vanno dalla sorveglianza satellitare al pascolo sostenibile. Inoltre, tra i protagonisti si sono distinti i giovani “Land Heroes” dell’Unccd, come Rokiatou Traoré.[6] Si tratta di un’imprenditrice del Mali che con la sua Herou Alliance compie degli sforzi per promuovere la produzione sostenibile di moringa, coinvolgendo donne e giovani. Traoré ha affermato che “la Cina mostra che con impegno politico e partecipazione comunitaria possiamo trasformare un deserto in oasi, aumentando il Pil e migliorando i redditi”[7]. Con la stessa linea di pensiero, Takudzwa Mlambo, fondatore di un progetto agroforestale in Zimbabwe, ha evidenziato l’enorme potenziale di droni, IoT e sistemi fotovoltaici integrati per accelerare il raggiungimento della neutralità del degrado del suolo nel continente.[8]

Con uno sguardo rivolto al futuro, il legame fra il successo di Kubuqi e gli obiettivi globali di sostenibilità è chiaro. Dunque, i governi, sotto l’egida dell’Unccd, hanno già preso l’impegno volto a ripristinare un miliardo di ettari di terre degradate entro il 2030, obiettivo che richiede un investimento stimato di almeno un miliardo di dollari al giorno nei prossimi cinque anni.[9] Questa è una mossa molto importante perché potrebbe portare al conseguimento di benefici in termini di resilienza, sicurezza alimentare e, non meno importante, di miglioramento dei mezzi di sussistenza.

La rigenerazione del suolo non è un’utopia o fantascienza ma una realtà, o meglio ancora un’opportunità, che porta prosperità e stabilità, restituendo speranza a persone e territori. E Kubuqi, con la sua rinascita ecologica ed economica, lo dimostra chiaramente. Di conseguenza, il messaggio che arriva dal “mare della morte” trasformato in oasi verde è molto chiaro: il suolo può rinascere, e come conseguenza di ciò anche la dignità umana e la biodiversità. Questo si può definire come un insegnamento che va oltre i confini della Cina e che rappresenta una bussola per un futuro verde e sostenibile per l’intero pianeta.

[1] www.unccd.int/resources/global-land-outlook/overview

[2] www.unccd.int/sites/default/files/2022-06/Drought%20in%20Numbers%20%28English%29.pdf

[3] https://time.com/4851013/china-greening-kubuqi-desert-land-restoration/

[4] www.unccd.int/news-stories/stories/desertification-recovery-lessons-kubuqi-forum

[5] www.pmi.org/most-influential-projects-2024/one-billion-trees

[6] www.unccd.int/land-and-life/youth/land-heroes/rokiatou-traore

[7] www.unccd.int/land-and-life/youth/land-heroes

[8] www.unccd.int/land-and-life/youth/land-heroes/takudzwa-ashley-mlambo

[9] www.ansa.it/ansa2030/notizie/green_blue/2024/06/15/onu-recuperare-1-miliardo-di-ettari-di-suolo-degradato_ab7e21d8-9975-4426-866b-24ccd0cae240.html

 

Giuseppe Poderati

Giuseppe Poderati è professore di Lingua e Cultura Italiana presso la Hubei University of Economics in Cina con focus su eco-linguismo. Laureato con lode in Giurisprudenza presso l’Università LUMSA, ha arricchito il suo percorso formativo partecipando a un programma di scambio internazionale presso la SUNY - State University of New York e il Center for Italian Studies. Giuseppe ha proseguito gli studi con corsi post-laurea in Business Internazionale, Politiche Pubbliche nell’Euro-Mediterraneo, ASEAN e Diritto Internazionale e Comparato, frequentando prestigiose istituzioni come il Graduate Institute di Ginevra e la National University of Singapore. Durante la sua carriera accademica, è stato visiting scholar presso il Max Planck Institute e l’Università di Palermo. Autore di numerosi articoli scientifici, Giuseppe ha completato un dottorato di ricerca in Diritto Ambientale presso la Wuhan University, consolidando il suo profilo di studioso internazionale e collaborando con altre università e organizzazioni.