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Anche per fare il ponte sullo Stretto serve l’acqua, che in Sicilia e Calabria manca tra crisi climatica e infrastrutture colabrodo

 |  Editoriale

Dopo i due terremoti in due giorni arrivati a scuotere lo Stretto di Messina dopo il progetto del ponte approvato dal Cipess –  il cui costo è stimato ad almeno 13,5 miliardi di euro tutti a carico dello Stato, senza che sia neanche definito l’intero progetto esecutivo –, adesso è la siccità a porre nuovi interrogativi sull’opportunità di realizzare l’insostenibile infrastruttura voluta dal vicepremier Matteo Salvini.

I cantieri del primo stralcio progettuale del ponte non possono partire senza l’acqua necessaria al funzionamento dei macchinari; per questo la società Stretto di Messina spa sta cercando nuove fonti idriche cui attingere.

«Per l’approvvigionamento dei cantieri – assicurano dalla società – non saranno pregiudicate in alcun modo le forniture delle città di Messina e Villa San Giovanni. È stato valutato uno specifico piano per la sostenibilità idrica dei cantieri. In un’ottica di ridondanza, anche al fine di seguire l’evoluzione temporale del cantiere, è stata individuata come soluzione ottimale la realizzazione di nuovi campi pozzi. Si evidenzia che i quantitativi degli approvvigionamenti sono superiori ai fabbisogni dei cantieri e ciò consentirà l’immissione in rete di un surplus già durante l’esecuzione dell’opera, lasciando a disposizione delle amministrazioni comunali tale fabbisogno aggiuntivo».

Eppure il quadro attuale delle risorse idriche tratteggiato dall’Ispra non induce grande ottimismo. Nell’ultimo anno «quasi il 50% dell’Italia (prevalentemente Sud Italia e Isole Maggiori) è stato colpito da siccità, da estrema a moderata, su scala annuale per effetto combinato della riduzione di precipitazione e dell’aumento della quota di evapotraspirazione». Ad esempio, su gran parte della Sardegna e della Sicilia – dove la crisi climatica in corso ha reso la siccità il 50% più probabile – si sono avuti fino a 146 giorni consecutivi senza piogge, mentre altrove scrociavano alluvioni. Non a caso, in Sicilia come anche in Calabria continua ad essere attivo lo stato d’emergenza idrica per siccità.

«A Villa San Giovanni – racconta a La Repubblica la sindaca Giusy Caminiti – siamo in una fase di contingentamento e stiamo molto meglio dei Comuni vicini, perché garantiamo l’erogazione dalle 8 del mattino alle 23. I paesi vicini a noi, come Scilla o Reggio, garantiscono l’erogazione due volte al giorno nelle diverse zone abitate. È chiaro che è inimmaginabile il peso che può avere un cantiere come quello del Ponte senza misure compensative. Noi abbiamo chiesto delle opere preliminari che ammontano a 135 milioni di euro: gli interventi per i quali abbiamo indicato priorità sono la manutenzione della rete idrica, la ricerca di nuovi pozzi e un dissalatore».

Sulla stessa scia, ma dall’altro lato dello Stretto, il sindaco di Messina Federico Basile: «Abbiamo, come d’altronde accade ovunque in Sicilia, perdite nella rete idrica pari al 50%. La società ha già previsto la realizzazione di alcuni pozzi nella zona nord e in quella sud, vicino Forza d’Agrò, ma noi abbiamo chiesto che venga data priorità al completamento del progetto Pnrr di riduzione delle perdite: è un piano da 26 milioni di euro che consentirà di ridurre la dispersione d’acqua del 15%. In più abbiamo chiesto ulteriori 20 milioni per un nuovo progetto che consenta di recuperare altre perdite del 15%».

Oltre ai sindaci, nei giorni scorsi è stata direttamente la Corte dei conti siciliana a mettere in evidenza l’emergenza ormai cronica che riguarda la gestione dell’acqua sull’isola, dove tra gli interventi di competenza della DG per le dighe e le infrastrutture idriche, ad oggi, per la Regione siciliana, risultano essere stati programmati n. 116 interventi per un investimento complessivo di circa 804,1 milioni di euro senza un chiaro orizzonte di fine cantieri, a fronte dei 13,5 miliardi di euro stanziati dallo Stato per il ponte. Di certo i risultati della programmazione infrastrutture idriche nell’ultimo mezzo secolo non inducono all’ottimismo.

Nella sua relazione la Corte sottolinea che «negli ultimi decenni, i mutamenti climatici – sui quali devono comunque incidere valutazioni adeguate ai dati complessivi delle precipitazioni atmosferiche e, tendenzialmente invariate nel lungo e discontinuo ciclo dei periodi di siccità – avrebbero dovuto indurre la Regione al miglior governo dell’approvvigionamento idrico, che – viceversa ed all’esatto contrario – è diventato meno sicuro, con il palese incremento dei profili di criticità programmatoria e gestionale, rilevato dall’anno 2000 (prima dichiarazione di emergenza idrica) assumendo carattere sempre più problematico fino alla più recente dichiarazione di stato di emergenza regionale, nel maggio 2024».

Il continuo alternarsi di siccità, ondate di calore e alluvioni è la regola in crisi climatica – dato che gli eventi meteo estremi sono resi più intensi e probabili dal surriscaldamento del pianeta –, ma in teoria la Sicilia gode ancora oggi di piogge abbondantemente sufficienti a soddisfare i bisogni del territorio, se ci fossero delle infrastrutture adeguate a trattenere la troppa acqua quando arriva e rilasciarla nelle fasi siccitose: «I bilanci pluviometrici regionali, sugli ultimi 12 mesi, risultano mediamente in linea con la media climatica, poiché – sottolinea nel merito la Corte – i periodi siccitosi si alternano con periodi ricchi di precipitazioni, consentendo al quantitativo totale di acqua piovana di non diminuire. Tuttavia, sussiste una grande disomogeneità locale nella distribuzione delle piogge, poiché vi sono molte zone regionali con significativi deficit di pioggia rispetto agli standard ordinari, ai quali dovrebbe corrispondere un’adeguata e congruente ri-organizzazione delle reti di distribuzione per portare la risorsa idrica nelle zone carenti».

Si arriva così al punto dolentissimo delle grandi dighe: 45 quelle presenti in Sicilia, ma solo 18 funzionanti a pieno regime, 20 con limitazioni al riempimento (la metà per l’assenza del collaudo e l’altra metà per ragioni di sicurezza), 7 fuori esercizio o ancora in costruzione. Risultato? «Al netto degli invasi inattivi e delle limitazioni, il volume disponibile totale – calcola la Corte – ammonta a circa 757,23 milioni di metri cubi, che è circa il 67,1% del volume complessivo potenziale di 1.129 milioni di metri cubi». Senza dimenticare che al problema ambientale e d’approvvigionamento idrico si somma il danno economico, perché secondo la Corte i canoni di concessione delle derivazioni idroelettriche dovrebbero essere rivisti di molto al rialzo: «I canoni presi in considerazione l’importo attualizzato dovrebbe essere rivalutato di ben oltre il 500%». In questo modo, i canoni corrisposti alla Regione dai concessionari – Enel e Idrosud – per 6 dighe a uso idroelettrico balzerebbero da 513 milioni di euro annui a oltre 2,6 miliardi. Ma la politica continua a pensare al ponte, anziché a come rispondere al bisogno d’acqua del sud.

Luca Aterini

Luca Aterini, toscano, nasce settimino il 1 dicembre 1988. Non ha particolari talenti ma, come Einstein, si dichiara solo appassionatamente curioso: nel suo caso non è una battuta di spirito. Nell’infanzia non disegna, ma scarabocchia su fogli bianchi un’infinità di mappe del tesoro; fonda il Club della Natura, e prosegue il suo impegno studiando Scienze per la pace. Scrive da sempre e dal 2010 per greenreport, di cui è oggi caporedattore.