
Dal nuovo Codice dei contratti pubblici, un approccio più favorevole alle società in house?

Le società pubbliche sono da sempre una sorta di anomalia nel panorama giuridico italiano: formalmente soggetti privati, ma con funzioni e finalità chiaramente pubbliche. Un’identità doppia che crea incertezze e rende difficile capire quale normativa applicare. Nelle società in house, ad esempio, l’ente pubblico controlla la società quasi come fosse un proprio ufficio interno. In questi casi, la società diventa uno strumento operativo dell’ente, usato per gestire direttamente servizi e attività senza passare dal mercato.
Oggi il settore delle partecipate ha dimensioni significative sia in termini di valore aggiunto che di occupati, e l’efficienza di tale comparto dell’economia incide non solo sulla finanza pubblica, ma anche sulla qualità dei servizi offerti e, dunque, sulle imprese che utilizzano i servizi in questione come input produttivo.
La “Relazione sulla gestione finanziaria degli enti locali - Comuni, Province e Città metropolitane esercizi 2021-2023” della Corte dei Conti indica che nel 2021 le unità economiche partecipate dal settore pubblico sono state 7.808, impiegando 924.892 addetti. Tale modello nel corso degli anni è finito sotto la lente di ingrandimento, soprattutto quando le imprese private hanno cominciato a contestare l’esclusione delle gare. Proprio da questi contenziosi è nata gran parte della giurisprudenza, nazionale ed europea, che ha definito nel tempo quando e come è possibile ricorrere all’in house, senza violare i principi di concorrenza e trasparenza, arrivando a stabilire che l’affidamento in house costituisce “un’eccezione rispetto alla regola generale dell’affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica” (Corte Cost., 20 marzo 2013, n. 46).
È sorprendente tuttavia che tale indirizzo non trovi riferimento nella normativa europea, in quanto la direttiva 2014/23/UE riconosce la potestà di autoproduzione da parte della Pubblica amministrazione, evidenziando che non vi è un obbligo di rivolgersi all’esterno per la prestazione di servizi pubblici locali, come previsto dal Considerando n.5: “È opportuno rammentare che nessuna disposizione della presente direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva”.
Non vi è pertanto alcuna posizione ancillare della scelta del soggetto in house rispetto all’opzione privatistica. Anche un recente intervento, la Corte Costituzionale (Sent. n. 131/2020) ha riconosciuto la funzione attiva e sociale della Pubblica amministrazione per cui: “…lo stesso diritto dell’Unione (…) mantiene, a ben vedere, in capo agli Stati membri la possibilità di apprestare, in relazione ad attività a spiccata valenza sociale, un modello organizzativo ispirato non al principio di concorrenza ma a quello di solidarietà (sempre che le organizzazioni non lucrative contribuiscano, in condizioni di pari trattamento, in modo effettivo e trasparente al perseguimento delle finalità sociali)”.
In tale ottica il nuovo Codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 36/2023), codificando il principio dell’autoproduzione nell’art.7, determina un maggiore allineamento del diritto nazionale all’ordinamento dell’Unione, che pone l’autoproduzione e l’esternalizzazione su un piano di tendenziale parità, così superando l’opzione fortemente restrittiva del precedente codice dei contratti pubblici. E che ci si trovi di fronte ad un nuovo paradigma è dato dalla considerazione, contenuta nella relazione parlamentare di accompagnamento, per cui: “La disposizione dell’art. 7 si ricollega ai principi della fiducia e del risultato, che orienta la scelta dell’Amministrazione anche nella scelta tra mercato e autoproduzione, così recuperando, in coerenza anche con alcune indicazioni che provengono dalla giurisprudenza costituzionale (cfr. sentenza n. 131/2020 Corte Cost.) l’“amministrazione del fare”, per troppo tempo sacrificata in base a visioni nazionali prive di fondamento unionale, a favore di un’amministrazione che si limita, con l’obbligo di esternalizzazione, a “far fare agli altri”.
Si comprende pertanto la portata quasi rivoluzionaria del nuovo art. 7 del Codice dei contratti pubblici, evidenziato anche da una recente sentenza del Consiglio di Stato (sez. V, 26 gennaio 2024, n. 843) relativa all’affidamento in house per cui: “Tale modello di sviluppo ed azione garantisce un adeguamento continuo anche alle esigenze della collettività. Un modello in altre parole maggiormente integrato, in termini di circuito virtuoso, tra fase di pianificazione e programmazione, da un lato, e fase di gestione, dall’altro lato, che nel caso di outsourcing non esisterebbe in quanto in questi casi si registra una netta cesura tra Pubblica amministrazione (che pianifica e programma) e singoli operatori scelti con gara e deputati alla gestione in senso stretto”.
