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Addio a Gianni Berengo Gardin, testimone «sociale e civile» dell’Italia in bianco e nero

È morto “il fotografo dell’uomo”, uno dei più grandi del Novecento: la sua ultima mostra è ancora in corso alla Galleria Nazionale dell’Umbria
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Se n’è andato a 94 anni Gianni Berengo Gardin, uno dei più grandi fotografi italiani del Novecento, autore di un’opera monumentale e profondamente civile, capace di restituire – attraverso il rigore del bianco e nero – la memoria visiva di un Paese in trasformazione.

Nato a Santa Margherita Ligure nel 1930, ha sempre considerato Venezia la sua vera patria: lì si è formato, ha scattato le sue prime immagini, e lì ha guardato per tutta la vita con amore e spirito critico. Con oltre due milioni di negativi, più di 260 libri pubblicati e oltre 360 mostre personali in tutto il mondo, Berengo Gardin ha attraversato più di settant’anni di storia italiana con uno sguardo discreto ma instancabile, restituendoci un racconto collettivo fatto di persone, gesti quotidiani, luoghi del lavoro e del disagio, paesaggi urbani e sociali.

«Se si è veramente fotografi si scatta sempre, anche senza rullino, anche senza macchina», diceva. E in questa dichiarazione si racchiudeva la sua idea di fotografia: non arte estetizzante, ma strumento di conoscenza, tanto da affermare che «il mio lavoro non è artistico, ma sociale e civile». Non cercava lo choc, ma la consapevolezza. È stato, fino all’ultimo, un fotografo "artigiano", come amava definirsi, fedele a una fotografia analogica, etica, partecipata.

Tra i suoi lavori più noti, Morire di classe (1969), realizzato con Carla Cerati sotto la guida di Franco Basaglia, è probabilmente il suo reportage più potente. Con immagini asciutte e impietose ma mai voyeuristiche, raccontò le condizioni dei manicomi italiani contribuendo a generare un’indignazione pubblica che avrebbe sostenuto il cammino verso la Legge Basaglia del 1978: «Fotografavamo solo con il consenso dei malati. Ma non volevamo mostrare la malattia, bensì la condizione».

Berengo Gardin ha raccontato l’Italia contadina del dopoguerra e l’industrializzazione, i cantieri di Renzo Piano e i campi rom, le periferie e i paesaggi urbani, l’architettura e il lavoro, la bellezza fragile della laguna veneziana minacciata dalle grandi navi – tema che ha documentato con forza in una mostra itinerante promossa dal FAI nel 2014 e 2015.

La sua ultima mostra, Gianni Berengo Gardin e Giorgio Morandi. Guardare oltre, è ancora in corso alla Galleria Nazionale dell’Umbria, dove le sue fotografie dialogano con i dipinti del maestro bolognese, in un gioco di rimandi tra silenzi, materia e luce.

Chiamato “il fotografo dell’uomo” da Sebastião Salgado, Berengo Gardin ha ricevuto innumerevoli riconoscimenti: dal Lucie Award alla carriera (2008) alla Leica Hall of Fame (2017), dalla laurea honoris causa dell’Università Statale di Milano al Premio Kapuściński per il reportage. Le sue opere sono oggi custodite nei più importanti musei del mondo: dal MoMA di New York al Reina Sofía di Madrid, dalla Bibliothèque Nationale de France al MAXXI di Roma, passando per la Maison Européenne de la Photographie e l’Istituto Centrale per la Grafica.

Il suo archivio – oggi affidato alla Fondazione Forma – è un patrimonio collettivo, una testimonianza dell’Italia che siamo stati e, forse, che vorremmo ancora essere: attenta, partecipe, in ascolto del reale.

In un tempo dominato dal flusso digitale e dall’immagine effimera, l’opera di Gianni Berengo Gardin ci ricorda che la fotografia può ancora essere un gesto politico, uno strumento per guardare il mondo con dignità, rispetto e responsabilità.

Redazione Greenreport

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