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La povertà educativa è il macigno che pesa sullo sviluppo dell’Italia

Nel nostro Paese il 70% dei cittadini non ha il bagaglio culturale minimo per svolgere in modo adeguato i compiti dell’età adulta. E l’ascensore sociale è bloccato
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L’8 settembre è la Giornata internazionale dell’alfabetizzazione, ma in Italia c’è davvero poco da festeggiare. Alla vigilia dell’appuntamento, a Cernobbio sono stati due rapporti curati da The European House - Ambrosetti che aiutano a inquadrare il problema della povertà educativa, un vero macigno che pesa sul mancato sviluppo del nostro Paese.

La prima ricerca Ambrosetti, realizzata col contributo della Fondazione Crt, documenta come nel 2024 quasi 1 italiano su 4 (23,1%) sia a rischio di povertà ed esclusione sociale – uno dei valori più alti in Europa – con 1,3 milioni di minori già in condizione di povertà assoluta (+47% negli ultimi dieci anni); l’Italia si colloca inoltre agli ultimi posti nell’Ue per quota di giovani laureati e tra i Paesi con più alta incidenza di giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e non sono in formazione (Neet, 15,2%).

Di conseguenza, l’ascensore sociale del Paese è bloccato: il background socio-economico e culturale delle famiglie condiziona fortemente i percorsi formativi e lavorativi dei giovani.

La povertà educativa blocca la creazione di circa 3,2 milioni di posti di lavoro e amplifica lo skill mismatch: in Italia mancano 2,2 milioni di lavoratori con titolo di studio secondario superiore o terziario. La buona notizia? Per azzerare questo gap di lavoratori con istruzione secondaria superiore o terziaria basterebbe formare il 20% dei lavoratori meno istruiti. Più in generale, se l’Italia si allineasse alle migliori pratiche europee in termini di inclusione nella formazione, sarebbe possibile creare fino a 48 miliardi di euro di Pil aggiuntivo e ridurre di circa 2 milioni il numero di persone in condizione di povertà ed esclusione sociale.

«Contrastare la povertà educativa – commenta Maria Chiara Carrozza, già ministra dell’Istruzione e presidente del Cnr – significa non solo garantire un diritto fondamentale, ma anche investire sul capitale umano e sul futuro del Paese. L’innovazione tecnologica e l’AI-learning rappresentano un’opportunità per colmare i divari, ma serve una strategia nazionale coordinata, sostenuta da riforme, governance integrata e strumenti di monitoraggio chiari».

Eppure – e veniamo al secondo studio Ambrosetti – ancora oggi l'Italia investe meno in istruzione rispetto alla media Ue (4% del Pil vs 4,8%), un dato che si rispecchia già nella vita dei giovanissimi. Il Paese sconta infatti, rispetto ai benchmark internazionali, una difficoltà nell'accesso all'istruzione, specialmente per gli asili nido (fase cruciale), l'università e la formazione degli adulti. Il tasso di iscrizione agli asili nido è del 30%, contro una media Ue del 35,5%, mentre il tasso di laurea è del 21%, ben al di sotto della media Ue del 35%; un adulto su tre si forma anche durante la vita lavorativa, quando uno su due è la media europea. Guardando invece ai Neet, nonostante siano calati molto nell’ultimo decennio, il problema ha ancora un costo stimato di 17.000 euro per giovane all'anno, per un totale di 24,5 miliardi di euro, pari all'1,23% del Pil.

Ma sarebbe sbagliato circoscrivere il problema della povertà educativa ai più giovani, perché tra gli adulti va ancora peggio, come documenta il secondo ciclo dell’Indagine sulle competenze degli adulti realizzata dall’Ocse nell’ambito del programma Piaac – e condotta nel 2022-23 in Italia dall’Inapp, su incarico del ministero del Lavoro. L’indagine si è svolta su un campione di adulti di età compresa tra 16 e 65 anni, in 31 Paesi ed economie, con l’obiettivo di misurare quelle competenze che «consentono alle persone di affrontare in modo adeguato la vita quotidiana e di partecipare pienamente all’economia e alla società». In particolare si parla delle capacità di lettura e comprensione di testi scritti (literacy), delle capacità di comprensione e utilizzo di informazioni matematiche e numeriche (numeracy) e delle capacità di raggiungere il proprio obiettivo in una situazione dinamica in cui la soluzione non è immediatamente disponibile (adaptive problem solving).

Considerando in modo congiunto i tre domini, il 26% degli adulti in Italia (media Ocse 18%) ha ottenuto un punteggio pari o inferiore al livello 1, ovvero oltre un quarto della popolazione adulta rientra tra i cosiddetti “low performers”. È necessario sottolineare che non si tratta “solo” di titoli di studio (il 20% degli adulti ha almeno una laurea, il 38% non raggiunge il diploma) ma di vere e proprie competenze.

In nessun punto del rapporto si parla esplicitamente di “functional illiteracy”, cioè di analfabetismo funzionale – ovvero l’incapacità di usare in modo efficace le abilità di lettura, scrittura e calcolo nelle situazioni della vita quotidiana – ma non è difficile ricavare la dimensione del fenomeno in Italia. Limitando l’analisi al dominio della literacy, sono 6 i livelli in cui vengono suddivisi i punteggi dell’analisi Piaac, da “inferiore a 1” (dove ricadono le persone che sono in grado di comprendere, al massimo, frasi brevi e semplici) a 5 (gli high perfomer). In Italia il 10% degli adulti è nel livello inferiore a 1, il 25% nel livello 1, il 35% nel livello 2, il 24% ricade nel 3 e il 5% nel livello 4 e superiore.

analfabetismo funzionale ocse piaac

In altre parole il 70% degli adulti italiani (dal livello inferiore 1 al 2) non ha le competenze minime per comprendere, valutare e usare le informazioni che riguardano l’attuale società, come già denunciato negli anni scorsi dal Forum Ambrosetti, dall’Istituto Cattaneo e anche da greenreport, grazie ai contributi dell’esperta Vittoria Gallina che ha contribuito allo svolgersi delle indagini Ocse-Piaac.

«Molti adulti con ridotte competenze si sentono esclusi dai processi politici e non hanno le competenze necessarie per interagire con informazioni complesse in ambiti digitali», sottolinea l’Ocse, e non a caso in Italia gli adulti che hanno raggiunto il livello 4 e superiore hanno anche più frequentemente dichiarato di essere molto d’accordo con l’affermazione "ci si può fidare della maggior parte delle persone" (all’opposto di "bisogna stare molto attenti"). Più in generale è l’intero impianto concettuale dello sviluppo sostenibile, complesso per definizione in quanto intreccia più dimensioni tra loro interagenti (ambientale, sociale, economica), risulta ostico da digerire se il 70% della popolazione è analfabeta funzionale o comunque con competenze minime.

Redazione Greenreport

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