Lo 0,001% della popolazione mondiale è tre volte più ricco della metà dell’umanità
Il 10% più ricco della popolazione mondiale guadagna più del restante 90%, mentre la metà più povera detiene meno del 10% del reddito globale. Il divario, se si esaminano i beni patrimoniali, è ancora più marcato: tre quarti della ricchezza mondiale sono concentrati nelle mani del 10% più agiato, mentre la metà più povera possiede appena il 2%. Non è finita. Il quadro assume contorni scioccanti se si restringe lo sguardo all’élite di Paperoni sparsi per il mondo: lo 0,001% più ricco – che in termini assoluti equivale a circa 60.000 multimilionari – controlla oggi una ricchezza che è tre volte superiore a quella detenuta da metà dell’umanità. E il fattore tempo gioca a loro vantaggio, come è evidenziato dal grafico qui sotto: la loro quota, che era pari a quasi il 4% nel 1995, ha superato il 6% nel 2025, facendo registrare un’accelerazione nel processo di concentrazione della ricchezza nelle mani di poche persone.

Tutto ciò emerge dal World inequality report 2026, che contiene anche un’interessante analisi sul rapporto tra ricchezza ed emissioni di gas serra prodotte.
Quella che è stata appena diffusa è la terza edizione di questo lavoro, dopo le precedenti del 2018 e del 2022. Ad analizzare ed elaborare i dati su scala globale sono stati 200 studiosi multidisciplinari di tutto il mondo affiliati al World inequality lab.
Nel documento, ricco di dati, grafici e tabelle, si legge che la disuguaglianza globale nell'accesso al capitale non solo sta aumentando, ma sta impattando sul futuro anche delle prossime generazioni per più motivi. La spesa media per l'istruzione per bambino nell'Africa subsahariana, ad esempio, si è attestata a circa 200 euro a parità di potere d'acquisto, rispetto a 7.400 euro in Europa e a 9.000 euro in Nord America e Oceania: un divario di oltre 1 a 40, cioè circa tre volte il divario nel Pil pro capite. Tali disparità modellano le possibilità di vita attraverso le generazioni, viene sottolineato, radicando una geografia di opportunità e di non opportunità che esacerba e perpetua le gerarchie di ricchezza globale.
Anche a livello di responsabilità in merito all’emissione nell’atmosfera di gas serra il rapporto è decisamente illuminante. Se il World inquality lab aveva già pubblicato non molto tempo fa un’analisi ad hoc sul tema (Climate inequality report 2025), nel report appena pubblicato viene mostrato che anche i contributi al cambiamento climatico sono tutt'altro che distribuiti uniformemente a livello globale e tra le fasce di diversa disponibilità di beni e ricchezze. Mentre il dibattito pubblico si concentra spesso sulle emissioni associate al consumo, nuovi studi hanno rivelato infatti come la proprietà del capitale svolga un ruolo fondamentale nella disuguaglianza delle emissioni: i proprietari di asset produttivi, infatti, decidono attivamente come investire le risorse e un approccio basato sulla proprietà attribuisce dunque le emissioni derivanti dalla produzione a coloro che possiedono il capitale corrispondente (in questo quadro, ad esempio, a un individuo che detiene il 50% del capitale di un'azienda - direttamente o tramite intermediari come i fondi di investimento - viene attribuito il 50% delle emissioni di tale azienda).

Nel capitolo intitolato con un gioco di parole Climate, a Capital Problem si legge che il 10% più ricco degli individui rappresenta il 77% delle emissioni globali associate alla proprietà del capitale privato, sottolineando come la crisi climatica sia inseparabile dalla concentrazione della ricchezza. Affrontare la questione richiede un riallineamento mirato delle strutture finanziarie e di investimento che alimentano sia le emissioni che la disuguaglianza.
Gli autori del rapporto sottolineano che la crisi climatica è una sfida collettiva, ma anche profondamente disuguale a seconda delle disponibilità economiche e delle responsabilità in materia di inquinamenti ed emissioni prodotte. Basti pensare che la metà più povera della popolazione mondiale rappresenta solo il 3% delle emissioni di carbonio associate alla proprietà privata. L'1% più ricco - equivalente a circa 56 milioni di persone in tutto il mondo, che possiedono almeno 2 milioni di euro (in media 6 mln) e guadagnano almeno 250.300 euro l'anno (in media 610mila euro l'anno) - da solo rappresenta il 41% di tutte le emissioni di gas serra in base all'approccio legato alla proprietà del capitale privato (a fronte del 15% in un approccio basato solo sui consumi), quasi il doppio dell'intero 90% inferiore combinato.


Questa disparità riguarda la vulnerabilità di fronte alla crisi climatica e ai conseguenti fenomeni di eventi meteo estremi. Coloro che emettono meno, in gran parte popolazioni nei paesi a basso reddito, sono anche quelli più esposti agli shock climatici come alluvioni, siccità, ondate di calore. Nel frattempo, coloro che emettono di più sono meglio difesi rispetto a simili rischi, con risorse per adattarsi o evitare le conseguenze del cambiamento climatico. Questa responsabilità ineguale è quindi anche una distribuzione ineguale del rischio. La disuguaglianza climatica, sottolineano gli studiosi che hanno lavorato al rapporto, è sia una crisi ambientale che sociale.
Tra l’altro il report documenta come il sistema finanziario globale stia rafforzando la disuguaglianza. Le economie benestanti continuano a beneficiare di un «esorbitante privilegio» che va a discapito delle popolazioni più vulnerabili: ogni anno, scrivono gli autori del documento, circa l'1% del Pil globale (che è circa il triplo delle somme destinate agli aiuti allo sviluppo) passa dalle nazioni più povere a quelle più ricche attraverso trasferimenti netti di reddito esteri associati a rendimenti in eccesso persistenti e pagamenti di interessi inferiori sulle passività dei paesi ricchi.
La disuguaglianza è stata a lungo una caratteristica distintiva dell'economia globale, riconoscono gli autori del report, ma ora ha raggiunto livelli che richiedono un'attenzione urgente: «I benefici della globalizzazione e della crescita economica sono confluiti in modo sproporzionato a una piccola minoranza, mentre gran parte della popolazione mondiale deve ancora affrontare difficoltà nel raggiungere mezzi di sussistenza stabili. Queste divisioni non sono inevitabili. Sono il risultato di scelte politiche e istituzionali». E i dati dimostrano che la disuguaglianza può essere ridotta, per legge. Politiche come i trasferimenti redistributivi, la tassazione progressiva, gli investimenti nel capitale umano e i diritti del lavoro più forti hanno fatto la differenza in alcuni contesti. In altri si fa invece ancora fatica a seguire questi obiettivi. Ne sa qualcosa l’Italia, in cui è del tutto evidente che per finanziare la transizione ecologica e ridurre le disuguaglianze serve più progressività fiscale.
Nel testo redatto dagli studiosi del World inequality lab viene sottolineato che la tassazione spesso fallisce dove è più necessaria, ovvero in cima alla scala della ricchezza e nell’ottica della distribuzione. Il motivo? Semplice: gli ultra-ricchi sfuggono alla tassazione. Le aliquote effettive dell'imposta sul reddito aumentano costantemente per la maggior parte della popolazione, ma scendono bruscamente per i miliardari. Queste élite pagano proporzionalmente meno della maggior parte delle famiglie che guadagnano redditi molto più bassi. Questo modello regressivo priva gli Stati di risorse per investimenti essenziali nell'istruzione, nell'assistenza sanitaria e nell'azione per il clima. Mina anche l'equità e la coesione sociale diminuendo la fiducia nel sistema fiscale. La tassazione progressiva è quindi cruciale: non solo mobilita le entrate per finanziare beni pubblici e ridurre la disuguaglianza, ma rafforza anche la legittimità dei sistemi fiscali assicurando che coloro che hanno i maggiori mezzi contribuiscano con la loro giusta quota. Proposte come le tasse minime sulla ricchezza dei multimilionari, concludono gli studiosi, illustrano la portata delle risorse che potrebbero essere mobilitate per finanziare l'istruzione, la salute e l'adattamento climatico. Anche aliquote modeste come un'imposta minima globale sulle ricchezze dei miliardari potrebbero valere tra lo 0,45% e l'1,11% del Pil globale e potrebbero finanziare investimenti trasformativi per i diversi gradi di istruzione, nell'assistenza sanitaria, nelle azioni di mitigazione e di adattamento rispetto alla crisi climatica. La politica fiscale è una potente leva, scrivono gli studiosi, perché sistemi fiscali più equi, in cui quelli in cima alla piramide delle ricchezze contribuiscono a tassi più elevati attraverso tasse progressive, non solo mobilitano risorse ma rafforzano anche la legittimità fiscale. Sta ai decisori politici agire di conseguenza.
