Per finanziare la transizione ecologica e ridurre le disuguaglianze serve più progressività fiscale
Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività. È quanto afferma l’articolo 53 della Costituzione italiana, ma è di fatto disatteso: per il 7% degli italiani coi redditi più elevati il sistema fiscale è di fatto regressivo, e la situazione peggiora di molto se oltre al reddito si considera anche il patrimonio. Eppure se fosse applicata una patrimoniale anche solo all’1% più ricco – cioè a chi possiede almeno 1,7 milioni di euro di patrimonio – si otterrebbe un gettito addizionale di circa 30 miliardi di euro, per finanziare la transizione ecologica, ridurre le disuguaglianze e migliorare la coesione sociale. Ne abbiamo parlato con l’economista Demetrio Guzzardi, ricercatore post-dottorato presso il Dipartimento di Statistica Economica e Finanza dell'Università della Calabria e ricercatore affiliato presso l'Istituto di Economia della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa.
Intervista
Un recente convegno promosso da Oxfam a Roma, nella Pontificia Università Gregoriana, è tornato ad accendere l’attenzione sul mancato rispetto dell’art 53 della Costituzione italiana: per quali fasce di reddito e ricchezza il fisco italiano è regressivo, e cosa significa?
«In un recente studio condotto insieme ai colleghi della Scuola Superiore Sant’Anna e dell’Università di Milano-Bicocca, abbiamo evidenziato come il sistema fiscale italiano sia regressivo per i contribuenti più ricchi. Considerando tutte le tasse – dall’Irpef alle imposte sui redditi finanziari, Iva, bollo e tasse locali – l’aliquota effettiva, cioè il rapporto tra quanto pagato e il reddito lordo, diminuisce oltre una certa soglia, che riguarda circa il 7% degli italiani con reddito medio superiore ai 75.000 euro lordi annui.
La riduzione dell’aliquota è dovuta a diversi fattori: una quota crescente di redditi da capitale, tassati con aliquote inferiori rispetto al lavoro; una maggiore capacità di risparmio, che riduce i consumi e quindi l’Iva pagata; e il peso relativamente più basso dei contributi sociali per i redditi elevati. Ne risulta un’aliquota effettiva decrescente: dal 50% circa scende a poco più del 32% per lo 0,1% più ricco, ossia chi guadagna in media oltre un milione di euro l’anno.
La regressività si accentua ulteriormente considerando il patrimonio: ordinando i contribuenti in base alla ricchezza, le aliquote effettive diminuiscono costantemente. Chi possiede grandi patrimoni ha redditi prevalentemente da investimenti, soggetti a tassazione più favorevole rispetto al lavoro, beneficiando così di aliquote più basse rispetto a chi vive principalmente di reddito da lavoro».
Quali sono le direzioni possibili di riforma fiscale per migliorare l’equità della tassazione – su redditi, patrimoni e successioni –, e quale fetta di popolazione riguarderebbero?
«Le possibilità di intervento sono numerose: non esiste necessariamente un’unica soluzione, anzi, la strategia migliore sarebbe affrontare il problema su più fronti. Un esempio è l’imposta sulle successioni. L’Italia ha una tassazione molto bassa in questo ambito: raccoglie circa 1 miliardo l’anno, contro i 21 miliardi della Francia, Paese simile per sistema fiscale e patrimonio delle famiglie.
Un’altra strada, analizzata nel nostro studio, riguarda la possibilità di intervenire direttamente sulla fascia di cittadini per cui oggi il sistema fiscale è regressivo. Seguendo un modello di tassazione ottimale, abbiamo calcolato di quanto dovrebbero aumentare le imposte sui redditi da capitale per rendere l’intero sistema progressivo. Secondo i nostri risultati, portando l’imposta sui redditi finanziari al 60% per il 7% più ricco, l’aliquota media effettiva non solo smetterebbe di essere regressiva, ma crescerebbe gradualmente fino a raggiungere circa il 60% per lo 0,1% più ricco, contro l’attuale 32%.
Nel nostro studio consideriamo anche un’altra possibilità: l’introduzione di una patrimoniale mirata esclusivamente al 7% più ricco, disegnata in modo da eliminare la regressività e rientrare nei criteri del modello di tassazione ottimale. Secondo le nostre stime, questa imposta colpirebbe solo chi possiede patrimoni superiori a 400.000 euro, con un’aliquota iniziale dello 0,11% che crescerebbe progressivamente fino all’1,5% per lo 0,1% più ricco, ossia chi detiene in media patrimoni superiori ai 17 milioni di euro.
Una patrimoniale ben strutturata risolverebbe inoltre un ulteriore problema: i contribuenti più ricchi possono spesso eludere le imposte sul reddito grazie a pianificazione fiscale e rinvio dei guadagni. Il patrimonio, invece, è molto più difficile da manipolare e, grazie ai recenti progressi nella tassazione dei flussi di ricchezza offshore e al rafforzamento dello scambio automatico di informazioni tra le amministrazioni fiscali, un’imposta patrimoniale aggiuntiva rispetto a quelle sul reddito appare una soluzione praticabile».
Quale ammontare di gettito sarebbe atteso da tali riforme, e come potrebbe essere impiegato per finanziare gli investimenti necessari alla transizione ecologica senza gravare sulle fasce meno abbienti, dato che le “tasse verdi” sono spesso regressive?
«Queste riforme mirano ad aumentare il prelievo effettivo sui più ricchi, per i quali oggi il sistema si mostra regressivo. Le strade possibili sono due: un aumento dell’aliquota sui redditi da capitale oppure, in alternativa, l’introduzione di un’imposta patrimoniale.
Secondo il nostro studio, che tiene conto anche delle risposte comportamentali degli individui (compresa la possibile evasione), se una patrimoniale fosse applicata anche solo all’1% più ricco – cioè a chi possiede almeno 1,7 milioni di euro di patrimonio – si otterrebbe un gettito addizionale di circa 30 miliardi di euro.
Queste risorse potrebbero essere utilizzate in molti modi: ad esempio, per ridurre la pressione fiscale sul ceto medio e sul lavoro, oppure per finanziare investimenti nella transizione ecologica, come incentivi all’efficientamento energetico delle abitazioni o lo sviluppo delle energie rinnovabili. Tali interventi, oltre a favorire la sostenibilità, avrebbero anche un effetto positivo sul prezzo dell’energia, con un vantaggio ulteriore per i cittadini meno abbienti, che destinano una quota più alta del loro reddito proprio alla spesa energetica».
Aumentare la tassazione sui ricchi porterebbe solo benefici alla grande maggioranza dei cittadini, eppure spesso tale proposta incontra resistenze anche da parte di chi non ne sarebbe colpito, e c’è chi afferma che dovremmo prima concentraci a combattere l’elusione e l’evasione fiscale: cosa ne pensa?
«La resistenza di chi non sarebbe toccato da queste riforme la comprendo: in Italia il dibattito pubblico su questi temi è, troppo spesso, distorta da chi è in malafede per alimentare timori infondati. È però importante chiarire un punto: introdurre un prelievo fiscale più equo, che renda il sistema progressivo anche per i più ricchi, non significa rinunciare alla lotta contro evasione ed elusione. Non esiste un’unica misura miracolosa: i problemi vanno affrontati su più fronti. Dobbiamo certamente rafforzare le misure contro evasione ed elusione, ma dobbiamo anche rendere il sistema globalmente più giusto.
E questo non significa chiedere di più al piccolo risparmiatore o al pensionato. Significa chiedere un contributo maggiore a chi, fino a oggi, ha pagato relativamente meno perché il sistema lo favoriva. Sappiamo bene chi sono: chi ha redditi molto elevati (oltre i 75.000 euro annui) o patrimoni oltre il milione di euro.
Per rendersi conto: una persona che inizia a lavorare a 23 anni con un reddito lordo di 23.000 euro, a 65 anni avrà guadagnato complessivamente circa 1 milione di euro. Al netto di contributi sociali e Irpef, però, ne resteranno poco più di 600.000, da cui dovrà attingere per vivere durante tutta la vita lavorativa. È evidente, quindi, che le riforme di cui parliamo sono molto lontane dal toccare queste persone: l’obiettivo di queste riforme è rendere il sistema più equo colpendo chi finora ha contribuito meno del giusto».
Sta crescendo la pressione a livello internazionale per aumentare le tasse sugli ultraricchi – con Paesi come Spagna, Brasile, Sudafrica e Cile che hanno aderito alla Piattaforma di Siviglia sul tema, una strada imboccata anche dai Paesi Brics – ma si moltiplicano anche le iniziative su singoli Paesi: ad esempio, sette premi Nobel hanno proposto l’introduzione di un’imposta patrimoniale in Francia. Sono plausibili interventi simili a livello nazionale, anche in Italia, oppure si rischia una fuga di capitali?
«Il dibattito pubblico internazionale è diventato molto più attento a questo tema, grazie anche all’iniziativa della presidenza brasiliana del G20 e al lavoro del professor Gabriel Zucman, che hanno proposto un’imposta minima sul patrimonio dei miliardari e dei centimilionari, coordinata a livello internazionale.
Un aspetto spesso sottovalutato è che è possibile intervenire anche a livello nazionale, senza attendere un coordinamento globale. Alcuni Paesi, infatti, già applicano un’imposta patrimoniale senza che ciò abbia comportato un crollo dei patrimoni. È il caso, ad esempio, della Svizzera e della Spagna, e fino al 2013 anche della Francia. Proprio dalla Francia proviene un recente studio che dimostra come le imposte patrimoniali non abbiano provocato alcuna migrazione di massa.
Inoltre, introducendo clausole specifiche – ormai considerate imprescindibili da tutti gli economisti che si occupano di questi temi – come una exit tax o la possibilità di mantenere la tassazione ancorata alla cittadinanza (sul modello degli Stati Uniti), si potrebbero superare ulteriori timori e obiezioni.
In definitiva, io credo che la sfida non sia se introdurre o meno nuove forme di tassazione, se sui grandi patrimoni o sui redditi più elevati, ma sul come farlo in modo equo, efficace e credibile. La regressività attuale non è un destino inevitabile: dipende da scelte politiche. E oggi, di fronte alla necessità di finanziare la transizione ecologica, ridurre le disuguaglianze e alleggerire la pressione fiscale su lavoratori e ceti medi, rendere il sistema più giusto non è solo una questione di equità, ma anche di efficienza economica e di coesione sociale».