I crediti di carbonio possono abbattere le emissioni, riducendo i costi
Negli ultimi mesi i legislatori europei hanno rispolverato uno strumento che per troppo tempo era stato snobbato: quello dei crediti di carbonio. Nel limitato elenco delle leve che abbiamo a disposizione per ridurre le emissioni, i crediti di carbonio rivestono un ruolo essenziale per cercare di trasferire finanza climatica nei paesi in via di sviluppo ottimizzando allo stesso tempo l’efficacia delle risorse investite. Per questo, nell’Accordo di Parigi del 2015 rivestivano un ruolo centrale essendo il cardine di tutto l’articolo 6 del trattato.
Tuttavia per molti anni tale articolo non ha trovato attuazione se non per iniziative volontarie, mentre negli ultimi mesi è parso chiaro che sarebbe stato insensato non attuarlo nella sua interezza: inutile negare che la spinta politica su questo tema è stata data dal nuovo governo tedesco che, come spesso accede, detta la sua linea anche a livello Ue. Così nel luglio di quest’anno la Commissione ha dapprima ipotizzato un uso dei crediti per il raggiungimento degli obiettivi climatici al 2040 con una soglia massima del 3% delle emissioni di riferimento (quelle del 1990), poi poche settimane fa nel Consiglio europeo dedicato all’ambiente tale soglia è stata innalzata al 5%, mentre il periodo di attuazione è stato anticipato dal 2036 al 2031 per una fase pilota.
L’utilizzo dei crediti in un mercato che diventa di “obblighi” aiuterà certamente il settore a selezionare solo i progetti migliori, più trasparenti e, in linea con l’art. 6 dell’Accordo di Parigi, più equilibrati anche per il paese che li ospita.
Le polemiche non sono mancate in passato ma spesso sono state strumentali: di per sé, se gestiti in armonia con le comunità locali e se misurati in modo scientificamente rigoroso, i progetti non possono che essere uno straordinario strumento di miglioramento sociale, economico oltre che ambientale.
Dobbiamo sempre tenere a mente che le emissioni, ovunque esse avvengano, impattano a livello globale. Se evitiamo l’immissione in atmosfera di 1 kg di CO2 con un modulo fotovoltaico in Italia, lo stesso possiamo fare in un qualsiasi Paese africano, ma con l’importante differenza che quasi certamente il mix energetico di quel Paese sarà ben peggiore del nostro, pertanto con lo stesso modulo installato potremmo evitare più emissioni.
Sempre prendendo il fotovoltaico ad esempio, e considerando la resa media in Italia e il costo di un impianto chiavi in mano, si può ricavare che il costo a kg CO2 evitata oscilla tra i 100 e i 200 €/tonCO2eq. Mentre i crediti di carbonio vengono negoziati dai pochi euro fino ai 20 o 30 €/tonCO2eq.
Anche escludendo quindi i crediti di bassa qualità, grossolanamente definiti come quelli con valore inferiore ai 10 €, e prendendo il valore minore del costo dello stesso risparmio di CO2 con un impianto fotovoltaico in Italia, abbiamo una differenza di un fattore 10, tra i 10 € dei crediti e i 100 € di un impianto fotovoltaico. La differenza è quindi enorme: a parità di costo possiamo incidere 10 volte di più. Questo di per sé dovrebbe bastare.
Invece no, è meglio ancora di così! Perché questi interventi sono tra i pochi se non gli unici che portano finanza vera dai Paesi ricchi al “Global South” e permettono di migliorare la vita delle persone: per esempio con progetti di accesso all’acqua pulita o con l’utilizzo di stufe migliorate per la cottura del cibo. Vale la pena ricordare che più di 2 miliardi di persone nel mondo anche oggi cucineranno mettendo una pentolaccia sopra a 3 pietre.
Ridurre le emissioni, investire nell’ambiente in posti dove solitamente non arriva finanza, migliorare le condizioni di vita di miliardi di persone non possono essere relegate ad azioni “imperfette” perché prima dovremmo fare altro.
Nella lotta al cambiamento climatico non c’è un’azione da fare prima delle altre ma è necessario usare tutto quello che abbiamo, qui e ora, per agire. Per questo il ritorno dei crediti di carbonio è un bene.