Skip to main content

Fermare il Green deal in risposta ai dazi di Trump sarebbe un suicidio per l’economia italiana

La proposta avanzata dal Governo Meloni si muove in direzione opposta a quanto sta accadendo in Spagna, un Paese che oggi cresce quattro volte più velocemente del nostro
 |  Green economy

Ci risiamo. Ogni volta che c’è una crisi che si profila all’orizzonte – la crisi finanziaria, il Covid, la guerra in Ucraina – la soluzione è ritardare la transizione del Vecchio continente verso un’economia a zero emissioni, come se fosse un lusso.

E infatti da qualche giorno esponenti di Governo, in particolare la presidente Meloni e il ministro Salvini, e da ultimo in presidente della Confindustria Emanuele Orsini, chiedono tra le altre cose di “fermare il Green deal” per rispondere ai rischi posti sull’industria e sull’economia europea dai dazi di Trump e in genere per ritrovare la “competitività”.

Eppure perfino Draghi e Letta dicono nei loro celebrati rapporti che il deficit di innovazione e di produttività va colmato accelerando la decarbonizzazione e la digitalizzazione, perché vanno di pari passo con la competitività; lo stesso Draghi, che non può certo essere definito come un furioso ecologista, ha detto chiarissimamente durante la sua audizione al Senato qualche settimana fa, che per ridurre il prezzo dell’energia bisogna ridurre la dipendenza dal gas e spingere sulle energie pulite, in particolare in Italia. Le priorità, insomma, non sono affatto cambiate, contrariamente a quanto sostenuto da Orsini.

Ma che cosa vuole dire, esattamente “fermare il Green deal” e che c’entra con i dazi di Trump? La risposta alla seconda domanda è facile: niente.

Il Green deal, lanciato dalla Commissione europea e approvato dopo un lungo processo legislativo che ha coinvolto direttamente il Parlamento e il Consiglio e indirettamente migliaia di associazioni, gruppi di interesse, autorità locali e amministrazioni a tutti i livelli, è un vasto piano di normative e di finanziamenti finalizzato ad attrezzare per tempo la Ue, il suo sistema produttivo, le sue città e campagne, i suoi cittadini, di fronte all’emergenza di un clima che cambia per diventare il primo continente a emissioni nette zero; nasce dal presupposto innegabile che il cambiamento sempre più radicale del clima – testimoniato ogni giorno dai costi miliardari che i suoi effetti hanno sulla Ue – imponga di ridurre la pressione sulle risorse naturali e le emissioni derivanti da gas, petrolio e carbone non tra 10 anni, aspettando improbabili sviluppi di tecnologie inesistenti, ma ora, perché se la temperatura media si alza di più di 1,5° le conseguenze sarebbero irreversibili.

Per fare questo senza deindustrializzare e buttare sul lastrico milioni di persone e imprese, si è deciso di riorientare secondo scadenze precise il sistema produttivo in modo da renderlo indipendente dai combustibili fossili, causa prima dei cambiamenti climatici e dell’inquinamento, sostenendo lavoratori/trici e imprese con incentivi mirati e spingendo i governi a fare lo stesso; e oggi è la realtà, non l’ideologia, che ci dice che il modo più efficace di rendere rapidamente case, imprese, mobilità, campagne e città a prova di clima, è puntare su energie rinnovabili, riduzione del fabbisogno energetico, economia circolare, elettrificazione massiccia di industria e trasporti, orientando sussidi e investimenti in questa direzione. Non c’è assolutamente nulla di ideologico in questo. È un mero dato di fatto. Se la tua casa è a fuoco devi puntare sul modo più efficace per spegnerlo, adesso.

In fondo l’origine della disputa sul Green deal, a parte gli interessi economici di chi continua a guadagnare miliardi sulla dipendenza dai fossili, è proprio questa: non c’è il riconoscimento dell’urgenza assoluta di agire per tentare di ridurre al massimo le emissioni e si pensa che bloccare le regole che si sono dimostrate efficaci nello spingere il cambiamento serva a tenere duro nell’illusione, quella sì ideologica, che fantomatiche future tecnologie – che non saranno operative prima di venti, trenta o quaranta anni, come il nucleare pulito o la cattura del carbonio, l’idrogeno o i biocarburanti nelle auto – possano davvero permetterci di aspettare restando competitivi.

Non è cosi. Peraltro, fermarsi sarebbe assurdo perché i risultati ci sono: il consumo di gas è diminuito di ben 138 miliardi di metri cubi tra l’agosto del 2022 e il maggio del 2024, nonostante in Italia si faccia di tutto per restarne prigionieri, investendo miliardi in infrastrutture che rischiano di rimanere inutilizzate nei prossimi anni o legandoci mani e piedi al gas americano di Trump, in attesa magari che torni quello di Putin; nel primo semestre del 2024, le rinnovabili hanno raggiunto il 50% della produzione di energia elettrica; nonostante decine di migliaia di persone continuino a morire ogni anno prematuramente per l’inquinamento atmosferico, l’Ue è l’unica regione al mondo nella quale la qualità dell’aria ha avuto un miglioramento netto; in Europa, grazie alle normative già in vigore, il risparmio energetico è stato l’equivalente al consumo medio di 9 milioni di case e in Italia nel 2022 sono state evitate 6 milioni di tonnellate di CO2 e sono stati possibili risparmi per 3 miliardi anche grazie alla spinta delle direttive europee; il nostro Paese continua ad essere il numero 1 in Europa in materia di economia circolare, nonostante l’assenza di riconoscimento non solo da parte del governo ma anche delle rappresentanze industriali ufficiali.

Il potenziale è ancora maggiore: per esempio, se tutta l’illuminazione in Europa fosse fatta con le lampadine a Led, risparmieremmo l’energia necessaria a ricaricare 55 milioni di auto elettriche e 47 milioni di pompe di calore; e potrei continuare…

Tutti questi risultati sono ancora insufficienti, ma non cadono dal cielo: sono il frutto del lavoro e degli investimenti di imprese e lavoratori/trici, di un cambio culturale di parte dei cittadini, dell’evidenza dei costi dell’inazione. Solo nel settore dell’efficienza energetica ci sono 2 milioni di lavoratori e più di tre volte tanti nell’indotto. E anche nel settore della componentistica dell’automotive uno studio dell’Università di Venezia dimostra che le imprese che hanno deciso di attrezzarsi e convertirsi all’elettrico sono quelle che hanno più prospettive, non solo di sopravvivere ma anche di crescere.

Anche l’argomento, ripetuto a iosa, che l’Europa è responsabile solo per il 7% delle emissioni e che dunque dovrebbero muoversi gli altri è fallace, perché non solo questo è il ragionamento che ha permesso alla Cina di essere oggi all’avanguardia in tutte le tecnologie verdi – Byd ha appena annunciato un’auto capace di ricaricare la batteria in 5 minuti e i treni che percorrono la distanza tra Bruxelles e Milano ci mettono 6 ore, ecc… – ma perché non è neppure vero: nella atmosfera lassù continuano ad “asfissiare” il pianeta le emissioni di metà del secolo scorso ed è quell’accumulo, unito alle emissioni che continuano ad essere prodotte, che provocano il clima impazzito. Gli Usa sono responsabili del 30%, l’Europa 22% di quelle emissioni, mentre la Cina del 12%.

C’è inoltre un altro tema di cui si parla poco nella sostanza e che è invece chiave, come ripetono i rapporti Letta e Draghi, molto citati ma poco applicati nelle loro parti più costruttive. È l’urgenza della riforma interna della Ue a partire dalla fine dei veti, ma non solo: il rapido abbattimento delle barriere che ancora esistono tra i paesi della Ue, con la piena realizzazione di un mercato senza frontiere, ivi incluso il completamento dell’Unione bancaria,  il lancio di nuovi strumenti finanziari di debito e garanzia europei per sostenere investimenti e azioni comuni nei settori delle transizioni ecologica e digitale, come pure un sistema di sicurezza europeo, che è cosa ben diversa dalla semplice sospensione del Patto di stabilità per il riarmo nazionale. Per non parlare della fine ai sussidi ai combustibili fossi (111 miliardi nel 2023!). Insomma, invece di mettere in causa il Green deal c’è molto altro da fare.

Infine, il presidente Orsini ha chiesto di imitare l’esempio spagnolo e la decisione del presidente Sanchez di lanciare un piano di 14 miliardi di euro anche utilizzando il Pnrr. E la presidente Meloni ha risposto due giorni fa annunciando aiuti alle imprese per 25 miliardi, da prendere dal Pnrr (una proposta che quindi deve passare per l’autorizzazione della Ue) dal Fondo sociale sul clima (che ha tutt’altri obiettivi, ancora non esiste e per di più dipende dalla sempre più difficile attuazione dall’applicazione del sistema Ets2 a trasporti ed edifici) e dai Fondi di coesione, che però sono allocati per lo più alle Regioni e di cui solo una parte minore è gestita dagli Stati ma secondo precisi criteri.

Si tratta comunque di una strategia ben diversa da quella di Sanchez, e che punta a ulteriori sussidi pubblici a pioggia che corre il rischio di premiare imprese che hanno poca intenzione di cambiare strada.

L’iniziativa di Sanchez, come al solito sostenuta da un discorso dal respiro politico e ideale ben diverso dalla visione stretta dei nostri governanti, si basa sul rafforzamento, non sull’abbandono del Green deal, oltre che su una politica saggia e aperta sull’immigrazione, perché è anche per quello che l’economia spagnola cresce quattro volte di più che l’Italia: i prezzi dell’energia sono molto più bassi dei nostri a causa del progressivo sganciamento del prezzo dell’elettricità da quello del gas, cosa mai neppure tentata dall’Italia, e dal ruolo veramente travolgente dell’energia prodotta dalle rinnovabili, al punto che gli stessi produttori si preoccupano per i prezzi troppo bassi. Non solo Sanchez punta sul Green deal, ma anche a fare assumere all’industria spagnola un ruolo di leadership che non ha mai avuto. Di questa ambizione, purtroppo, non c’è traccia nella rappresentanza principale dell’industriale italiana e ancora meno nella maggioranza di governo. E questo a dispetto delle migliaia di imprese che innovano, esportano, crescono, creano nuovi posti di lavoro grazie al Green deal.

Monica Frassoni

Laureata in scienze politiche, nel 1987 è stata eletta segretario generale della Gioventù Federalista europea e si è trasferita a Bruxelles. Dal 2002 al 2009, è stata Co-presidente del gruppo dei Verdi con Daniel Cohn-Bendit. È stata co-Presidente del Partito Verde Europeo dall’ottobre 2009 al novembre 2019. Dal 2020 presiede il Consiglio Comunale di Ixelles, comune della Regione di Bruxelles. Presiede dal 2011 la European Alliance to Save energy e dal 2013 il European Centre for Electoral Support.