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«L’inazione dell’Ue è una minaccia per la sua sovranità»: Draghi torna a suonare la sveglia in Europa

L’intervento a Bruxelles un anno dopo la presentazione del rapporto sulla competitività. Ursula von der Leyen: «I cittadini europei si aspettano che la nostra democrazia decida, agisca e dia risultati. Grazie Mario per il tuo servizio all’Unione»
 |  Green economy

«L’inazione dell’Ue è una minaccia per la sua sovranità». Mario Draghi torna a suonare la sveglia in Europa. È passato un anno da quando l’ex presidente della Bce ha presentato il suo rapporto sulla decarbonizzazione e la competitività. Un anno in cui l’attuazione di quanto contenuto in quel piano non ha certo brillato: complessivamente si è fermata all’11,2%, stando al monitoraggio effettuato dall’European Policy Innovation Council, e in particolare nessuna raccomandazione sull’energia ha trovato uno sbocco concreto.

In questi 12 mesi il mondo non è stato altrettanto fermo, anzi. Dal ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca al palesarsi dell’asse Cina-Russia-India, dall’esacerbarsi del conflitto in Ucraina ai bombardamenti israeliani su una Gaza ridotta alla fame: di fronte a tutto questo l’Europa è costantemente apparsa inerme o al massimo ha giocato di rimessa. Come nella partita dei dazi statunitensi, che hanno penalizzato le aziende europee con tariffe doganali del 15% e imposto anche l’acquisto di 750 miliardi di dollari in petrolio e gas naturale liquefatto.

Cita anche questo accordo, Draghi, nell’intervento che fa a Bruxelles per la conferenza di alto livello dedicata proprio al rapporto che aveva presentato un anno fa. L’ex premier italiano limita al massimo commenti e giudizi su singoli provvedimenti varati in questi mesi, ma nel suo discorso non mancano stoccate precise. E il tono complessivo è netto: «A un anno di distanza, l’Europa si trova in una situazione più difficile. Il nostro modello di crescita sta svanendo. Le vulnerabilità stanno aumentando. E non esiste un percorso chiaro per finanziare gli investimenti di cui abbiamo bisogno. Ci è stato dolorosamente ricordato che l’inazione minaccia non solo la nostra competitività, ma anche la nostra stessa sovranità».

Draghi parla subito dopo l’intervento di Ursula von der Leyen. La presidente della Commissione Ue sta attraversando una fase di chiara difficoltà, sostenuta com’è da una maggioranza, quella che poggia sui due pilastri dei Popolari europei e dei Socialisti & Democratici, sempre più traballante, vittima di veti incrociati e incapace di assumere decisioni nette. L’appello che rilancia oggi, oltre a quello per un’Europa che «si faccia carico della propria sicurezza», è nel segno dell’unità e dell’impegno ad agire: «Sono assolutamente convinta che l’Europa possa unirsi attorno a questo programma. Ogni singolo Paese membro ha approvato la relazione Draghi. E così ha fatto il Parlamento europeo. Sappiamo tutti cosa bisogna fare. Il “business as usual”, l’ordinaria amministrazione, non funziona più. Questo è il mio messaggio finale oggi. I cittadini europei si aspettano che la nostra democrazia decida, agisca e dia risultati».

Draghi non ha incarichi di vertice nell’Ue, non teme colpi bassi in qualche futura votazione, può parlare ancora più fuori dai danti: «I cittadini e le aziende europee apprezzano la diagnosi, le priorità chiare e i piani d’azione. Ma esprimono anche una crescente frustrazione. Sono delusi dalla lentezza dell’Ue. Ci vedono incapaci di tenere il passo con la velocità del cambiamento altrove. Sono pronti ad agire, ma temono che i governi non abbiano compreso la gravità del momento». Punta il dito contro il fatto «troppo spesso si trovano scuse per questa lentezza», contro il «compiacimento» che non porta da nessuna parte, esorta a imprimere «una nuova velocità» che garantisca «nel giro di mesi, non di anni».

La sintesi di quanto avvenuto ultimamente è impietosa: «Gli Stati Uniti hanno imposto le tariffe più elevate dall’era Smoot-Hawley. La Cina è diventata un concorrente ancora più forte. Abbiamo anche visto come la capacità di risposta dell’Europa sia limitata dalle sue dipendenze, anche se il nostro peso economico è considerevole. La dipendenza dagli Stati Uniti per la difesa è stata citata come uno dei motivi per cui abbiamo dovuto accettare un accordo commerciale in gran parte alle condizioni americane». E altrettanto impietosi sono il tratteggio del quadro attuale e le stime per il futuro: «l debito pubblico dell’Ue è destinato a crescere di 10 punti percentuali nel prossimo decennio, raggiungendo il 93% del Pil. A un anno di distanza, l’Europa si trova quindi in una situazione più difficile. Il nostro modello di crescita sta svanendo. Le vulnerabilità stanno aumentando e non esiste un percorso chiaro per finanziare gli investimenti che ci servono».

Tra l’altro, fa notare citando in particolare le politiche riguardanti il tema della mobilità, in alcuni settori gli obiettivi su cui oggi si discute si basano su «presupposti che non sono più validi»: «La scadenza del 2035 per le emissioni zero allo scarico era stata concepita per innescare un circolo virtuoso. Obiettivi chiari avrebbero spinto gli investimenti nelle infrastrutture di ricarica, fatto crescere il mercato interno, stimolato l’innovazione e reso i modelli elettrici più economici. Si prevedeva che batterie, microchip si sviluppassero parallelamente. Ma ciò non è avvenuto».

Se non è avvenuto è perché sono mancate la volontà, la determinazione, l’unità degli intenti e, dettaglio non da poco che riguarda anche altri settori, perché non si è provveduto a reperire i necessari investimenti. Per questo Draghi torna a sottolineare che è necessario «considerare un debito comune per progetti comuni - sia a livello Ue, sia tra una coalizione di Stati membri - per amplificare i benefici del coordinamento»: «L’emissione congiunta non amplierebbe magicamente lo spazio fiscale. Ma permetterebbe all’Europa di finanziare progetti più grandi in settori che aumentano la produttività - innovazioni, tecnologie su larga scala, ricerca e sviluppo per la difesa o energia - dove la spesa nazionale non è più sufficiente».

Investimenti sono necessari anche e soprattutto per accelerare sulla strada della transizione energetica. «La decarbonizzazione è il percorso migliore a lungo termine per l’Europa per raggiungere l’indipendenza energetica nonostante la sua carenza di risorse naturali – dice – Tuttavia, richiede investimenti molto più rapidi per far funzionare un sistema basato sulle energie rinnovabili: nelle reti, negli interconnettori e nella generazione di base pulita come il nucleare. Oggi, metà della capacità transfrontaliera necessaria entro il 2030 non ha un piano di investimenti. Anche i progetti approvati richiedono più di dieci anni, e metà di questo tempo viene perso per l’ottenimento dei permessi. Il Pacchetto Rete, previsto per la fine di quest'anno, e l'aumento di bilancio proposto per i collegamenti transfrontalieri rappresentano passi avanti. Tuttavia, il sistema attuale - coordinamento nazionale dei permessi e dei finanziamenti - non è adatto a un mercato energetico europeo. I progetti transfrontalieri necessitano di pianificazione ed esecuzione a livello Ue. Allo stesso tempo, dobbiamo essere realistici: queste misure non ridurranno rapidamente i prezzi dell'energia. Ecco perché dobbiamo agire sulle leve che possono fornire un sollievo più rapido». Due in particolare: «Migliorare il funzionamento dei mercati del gas e allentare la presa del gas sui prezzi dell’elettricità. L’Europa è già il maggiore acquirente mondiale di Gnl statunitense e si è impegnata ad acquistare fino a 750 miliardi di dollari in prodotti energetici statunitensi. Qualunque siano le condizioni di tale accordo, dovrebbe essere considerato un’opportunità per riorganizzare le nostre modalità di acquisto del gas. Da marzo, il Gnl importato in Europa è costato dal 60 al 90% in più rispetto allo stesso gas negli Stati Uniti, anche tenendo conto della logistica e della rigassificazione». L’appello è a lavorare per disaccoppiare la remunerazione delle energie rinnovabili produzione di energia fossile, ampliando l’energia contrattuale, ovvero gli Accordi di Potere d’acquisto (Ppa) e i Contratti per differenza (Cfd) bidirezionali. L’appello, più in generale, è anche a semplificare e a rimuovere le barriere per agevolare la diffusione delle nuove tecnologie. L’appello, in conclusione, è ad agire.

Gli applausi non mancano, il ringraziamento da parte di von der Leyen «per il servizio dato all’Ue» nemmeno. Ma nonostante il mezzo sorriso inclinato a destra, l’espressione di Draghi non è delle più felici.

 

Simone Collini

Dottore di ricerca in Filosofia e giornalista professionista. Ha lavorato come cronista parlamentare e caposervizio politico al quotidiano l’Unità. Ha scritto per il sito web dell’Agenzia spaziale italiana e per la rivista Global Science. Come esperto in comunicazione politico-istituzionale ha ricoperto il ruolo di portavoce del ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca nel biennio 2017-2018. Consulente per la comunicazione e attività di ufficio stampa anche per l’Autorità di bacino distrettuale dell’Appennino centrale, Unisin/Confsal, Ordine degli Architetti di Roma. Ha pubblicato con Castelvecchi il libro “Di sana pianta – L’innovazione e il buon governo”.