All’Europarlamento va in scena la debolezza di von der Leyen, tra maggioranza spaccata e critiche da fuori Strasburgo
Ursula von der Leyen appare sempre più debole. E sempre più a rischio implosione la maggioranza che la sostiene, quella che poggia sui due pilastri costituiti da Popolari europei e Socialisti & Democratici. Il discorso sullo stato dell’Unione pronunciato dalla presidente della Commissione europea ne è stata l’ennesima riprova. Von der Leyen ha difeso l’intesa con Trump sui dazi dicendo che «garantisce una stabilità fondamentale nelle nostre relazioni con gli Usa in un momento di grave insicurezza globale», ha annunciato che l’Europa anticiperà 6 miliardi di euro dal prestito G7 e stipulerà un’alleanza sui droni con l’Ucraina, espresso solidarietà alla Polonia per la violazione russa «spietata e senza precedenti» dei suoi spazi aerei, definito ciò che accade a Gaza «inaccettabile» e fatto sapere che Bruxelles proporrà di «sospende il nostro sostegno bilaterale a Israele»: «Proporremo sanzioni contro i ministri estremisti e contro i coloni violenti. Proporremo anche una sospensione parziale dell'Accordo di Associazione sulle questioni commerciali».
Non sono mancati applausi da parte dell’aula di Strasburgo, con anche due standing ovation dedicate agli ospiti: il capo delle squadre antincendio greche e la nonna e il bambino ucraino rapito dai russi e scampato alla deportazione. Ma tutto ciò ha fatto da cornice a un quadro che appare sempre più sgranato e in procinto di perdere pezzi.
Se fuori dal Parlamento europeo anche la relatrice speciale Onu Francesca Albanese denuncia che su Gaza von der Leyen e l’Ue nel suo complesso si stanno muovendo tutt’altro che all’altezza della situazione («Troppo poco, troppo tardi, intollerabilmente insufficiente secondo il diritto internazionale, gli Stati dell’Ue devono imporre un embargo totale sulle armi, pendere gli scambi commerciali, perseguire i presunti criminali e inviare una flotta per rompere l'assedio. Niente di meno»), dentro l’aula di Strasburgo non solo fioccano critiche da parte della destra lepenista e dei gruppi di sinistra, ma va in scena un duro botta e risposta tra i due protagonisti che dovrebbero garantire la stabilità della cosiddetta “maggioranza Ursula”.
Prendendo la parola dopo la presidente della Commissione Ue, giusto pochi minuti dopo un appello all’unità messo sul piatto da von der Leyen, il capogruppo del Ppe, Manfred Weber, ha attaccato i socialisti accusandoli di «mancanza di responsabilità» sull’accordo Ue-Usa sui dazi e ha anche provato ad alimentare una spaccatura nel gruppo, sostenendo che «ci sono due realtà socialiste in Europa: Sánchez e Frederiksen (la leader danese, ndr) e spero che non assisteremo a una diffusione in Europa della realtà politica spagnola». Non si è fatta ovviamente attendere la replica della capogruppo S&D Iratxe Garcia Pérez, che rivolgendosi alla stessa von der Leyen ha detto: «Mi spiace ma devo dirle che oggi è risultato chiaro chi è il suo nemico principale, è il leader del Ppe, Manfred Weber. Si è sforzata di presentare un programma comune, ma ora sa chi il responsabile del fatto che la maggioranza non funziona». Perez ha anche difeso le critiche dei socialisti all’intesa sulle tariffe doganali per l’export europeo verso gli Stati Uniti, perché «accettare il 15% di dazi dagli Usa senza alcuna risposta è inaccettabile»: «Lei in Scozia in un campo di golf ha seppellito i rapporti di Draghi e Letta. Presenteremo emendamenti all’accordo». Anche quando la capogruppo S&D ha cambiato argomento nel corso del suo intervento in aula, il tono non è cambiato: «Dov’è l’Europa quando si muore a Gaza, quando i bambini vengono uccisi mentre cercano cibo? Abbiamo aspettato troppo tempo, accettiamo i suoi provvedimenti ma arrivano troppo tardi. Il genocidio va fermato». E in conclusione: «Signora von der Leyen, la responsabilità non significa fare alleanze con le destre, noi costruiremo l’Europa senza rinunciare al nostro contributo nel processo decisionale».
La posizione in cui si trova la presidente della Commissione Ue è tutt’altro che invidiabile. La maggioranza le si sta sfaldando sotto i piedi e le concessioni fatte al Ppe in quanto principale gruppo a Strasburgo si stanno dimostrando sufficienti a evitarle nuove pressioni e però al tempo stesso stanno erodendo i suoi consensi anche fuori dalle aule parlamentari. La cosa si sta mostrando in tutta evidenza sulle tematiche ambientali. Se alla vigilia del discorso sullo stato dell’Unione era arrivato un documento congiunto firmato da ben 470 associazioni europee contro «l’ondata di deregulation» emersa negli ultimi mesi, anche l’European environmental bureau si fa sentire con una nota che già dal titolo dice molto: «State of delusion». L’accusa mossa alla presidente della Commissione Ue dalla più grande rete di sigle ambientaliste europee è di star «barattando» l’eredità del Green deal dell’Ue con una mera deregolamentazione: «La presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha sottolineato con forza l’importanza dell’unità, della libertà, della democrazia e dello Stato di diritto nel suo discorso sullo stato dell’Unione di oggi. Ma nonostante abbia invocato “il potere del Green deal” e la necessità di “mantenere la rotta”, la sua incessante spinta alla deregolamentazione, che serve principalmente gli interessi a breve termine dell’industria, rivela un approccio vuoto alle crisi climatiche, naturali e dell’inquinamento». La denuncia nei confronti dei vertici di Bruxelles è netta: dietro la retorica della semplificazione per la competitività, scrive nella nota l’Eeb, si nasconde un programma di deregolamentazione: «Una valanga di pacchetti Omnibus per ridurre le norme per alcune imprese, salutati come un risparmio di 8 miliardi di euro. Tuttavia, la stessa revisione della Commissione mostra che la mancata attuazione della legislazione ambientale dell’Ue già costa 180 miliardi di euro all’anno». Per di più, nota sempre la rete di associazioni ambientaliste europee, questa spinta alla deregolamentazione non è accompagnata da alcuna prova di benefici per la società o l’economia «e contraddice direttamente il recente parere della Corte internazionale di giustizia secondo cui gli obblighi climatici non sono aspirazionali ma vincolanti, sostanziali e applicabili. Gli Stati hanno il dovere di prevenire i danni ambientali, cooperare a livello internazionale e difendere i diritti fondamentali mentre i rischi climatici aumentano». L’Eeb mette sul piatto un’approfondita analisi sui motivi per cui all’Europa non conviene fare dietrofront rispetto al Green deal non senza fatica approvato nella passata legislatura europea, ma la conclusione è tanto sintetica quanto chiara: smontando le regole comuni dell’Ue in nome della competitività, «la Commissione rischia di alimentare la polarizzazione, innescando una corsa al ribasso con la Cina e gli Stati Uniti e minando le fondamenta stesse del progetto europeo».