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Cresce il rischio di contaminazione nucleare dai sottomarini russi affondati nell'Artico

Da quando Mosca ha cessato l’accordo con l’Italia relativo alla demolizione delle unità dismesse dalla Marina russa, è solo questione di tempo prima che la corrosione prolungata causi il rilascio incontrollato di radioattività
 |  Inquinamenti e disinquinamenti

La Voenno-morskoj flot o Vfm è la denominazione adoperata comunemente per indicare la Marina militare della Federazione russa che, assieme alle forze terrestri e a quelle aerospaziali, compone le forze armate del Paese euroasiatico dal 1992. Ricordiamo che, in seguito allo sfaldamento dell'Unione sovietica, avvenuta nel lontano 1991, la Vsf ha ereditato una considerevole parte del naviglio appartenuto all’ex Urss, mantenendo tuttavia l’antica suddivisione in cinque flotte: la Flotta del Nord, la Flotta del Pacifico, la Flotta del Mar Nero, la Flotta del Baltico e la Flottiglia del Caspio. Completano la struttura della Forza armata i Corpi dell'aviazione navale e delle Truppe costiere alle quali vanno aggiunte le forze in distaccamento permanente quali il 5º squadrone Medio Oriente, con base a Tartus in Siria (prima della cacciata di Assad), e il distaccamento in Sudan (anche se non si hanno notizie certe esista ancora).

Il lignaggio storico della Marina militare russa risale alla Marina imperiale russa, istituita nell'ottobre 1696 dallo zar Pietro il Grande. In seguito alla dissoluzione dell'Unione sovietica, la Marina russa ha patito un lungo periodo di stagnazione dovuto sia all'assenza di una strategia d'impiego, sia di un apparato statale/governativo forte. La mancanza di fondi adeguati, infine, ha causato – dagli anni ‘90 fino all'inizio del 2000 – la cronica insufficiente opera di manutenzione dei mezzi navali, che si è aggiunta all’inadeguata formazione del personale; situazioni, queste, che hanno contribuito a determinare un esteso stato di degrado delle risorse a disposizione della stessa Marina.

Nel 1991, alla fine della cosiddetta Guerra fredda, la Russia possedeva un centinaio di sommergibili nucleari delle classi Ssn e Ssbn ancora attivi, molti dei quali dotati di doppio reattore nucleare e caricati con missili balistici su cui erano state montate testate nucleari. Ebbe, iniziò allora un’enorme e costosissima opera di dismissione che costò oltre 1 miliardo di euro attuali e che la Russia portò avanti con l’aiuto di alcuni Paesi occidentali, tra i quali ben figura l’Italia; quest’imponente opera di dismissione però non fu completata e venne eseguita con modalità non sempre tecnicamente all’altezza della sfida.
Com’è facilmente intuibile, la demolizione e lo smaltimento dei sottomarini nucleari è un processo lungo, complicato e pericoloso, che richiede personale specializzato e lunghe immersioni in mare e per periodi di tempo prolungati.

Fonti autorevoli russe, asseriscono che durante le operazioni di smaltimento il Governo dell’epoca decise di riversare molte scorie nucleari direttamente in mare, che finirono nell’Oceano Artico. Tale affermazione è supportata dal fatto che sono stati rinvenuti migliaia di oggetti radioattivi, molti dei quali con livelli di radioattività considerati pericolosi, oltre a 14 reattori nucleari ancora carichi con le loro barre di combustibile nucleare.

Sempre le stesse fonti russe affermano, inoltre, che in mare ci sono anche due interi sottomarini nucleari, completi di tutti i loro pezzi, ancora sott’acqua e tuttora potenzialmente in grado di emettere molte radiazioni, stimate in circa un quarto di quelle rilasciate nei primi mesi del disastro avvenuto nella centrale nucleare di Fukushima (Giappone) nel 2011. 

La ragione di questo deliberato affondamento si ritiene possa dipendere dal fatto che dismetterli avrebbe richiesto lunghe e faticose immersioni in acque ghiacciate, in cui sarebbe stato possibile immergersi solo in tre o quattro mesi dell’anno, e i governi russi dell’epoca valutarono fosse meglio lasciarli dov’erano.

Nelle acque ghiacciate a nord della Russia, i reattori nucleari sottomarini dismessi giacciono dunque in continuo stato di deterioramento sul fondo dell’oceano; è solo questione di tempo prima che la corrosione prolungata permetta all’acqua di mare di corrodere le ultime parti che proteggono ancora il combustibile (uranio), causando il rilascio incontrollato di radioattività nell’Artico.

A questo punto deve essere richiamata la legge 31 luglio 2005, n.160 “Ratifica ed esecuzione dell'Accordo di cooperazione tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo della Federazione russa nel campo dello smantellamento dei sommergibili nucleari radiati dalla marina militare russa e della gestione sicura dei rifiuti radioattivi e del combustibile nucleare esaurito, fatto a Roma il 5 novembre 2003”, in cui all’art. 3 si autorizza la spesa complessiva di euro 360 milioni per il periodo 2005-2013, di cui euro 8 milioni per l'anno 2005 e 44 milioni annui a decorrere dal 2006, per consentire la partecipazione italiana all'Accordo medesimo.

Questo accordo che ha visto, per circa un ventennio, l’impegno di molte imprese italiane che operano nel settore, il 7 dicembre 2023, viene disapplicato da Mosca – per cause facilmente riconducibili al conflitto in corso – che ha reso noto la cessazione dell’accordo tra Russia e Italia, relativo alla demolizione dei sottomarini nucleari dismessi dalla Marina russa e al successivo trattamento delle scorie radioattive.

Francamente, qualche preoccupazione sorge spontanea: con la messa in archivio di questo accordo tra Italia e Russia, chi continuerà l’opera di demolizione della flotta dei sommergibili nucleati dell’ex Unione sovietica, che pericolo corre tutta l’area del Mar Glaciale Artico?

Redazione Greenreport

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