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Intervista all'ex commissario europeo agli Affari economici e presidente del Consiglio

Come sta il Green deal? Gentiloni: «Irreversibile, va combattuta l’idea di usarlo come capro espiatorio»

«L’Europa deve rendere il suo cammino più elastico, deve costruirvi intorno un consenso sociale più vasto, ma interromperlo sarebbe suicida»
 |  Interviste

Le idee di Donald Trump sui dazi erano largamente note. Ma nessuno aveva previsto le dimensioni così larghe delle sue scelte protezioniste e l’assenza di qualsiasi criterio geopolitico nel praticarle. L’impatto di questa guerra commerciale è stato enorme. La pausa attuale è utile, però non mi illudo che possa eliminare il caos generato. Alla fine, avremo meno crescita e più inflazione, soprattutto negli stessi Stati Uniti». Paolo Gentiloni, fino a pochi mesi fa commissario europeo agli Affari economici, commenta così lo shock suscitato dall’annuncio Urbi et orbi del presidente americano sui muri tariffari eretti per ostacolare l’export dal mondo verso gli Stati Uniti, seguito dopo solo qualche giorno dal contro-annuncio sulla sospensione di tre mesi dei nuovi dazi verso l’Europa. Ma come sottolinea Gentiloni, la possibilità di una guerra commerciale globale è ormai concreta. In Europa molti commentatori e anche alcuni leader politici – tra loro Giorgia Meloni – hanno sostenuto che di fronte a questo scenario preoccupante e inedito occorrerà presto sospendere il Green deal, i cui costi sociali ed economici sarebbero incompatibili con l’attuale fase di difficoltà e incertezza.

Intervista

Quattro anni di presidenza Trump potranno davvero bloccare o comunque imprigionare la transizione ecologica in Europa e nel mondo? O le dinamiche dell’economia reale, già abbastanza orientate in direzione green, avranno la meglio?

Intanto bisogna ricordare che anche su questo punto come sui dazi l’impostazione del presidente Trump non è una novità. All’inizio del suo primo mandato Trump uscì dagli accordi di Parigi sul clima del 2015, nell’ultima campagna elettorale uno dei suoi slogan preferiti era l’ormai celebre Drill, baby, drill. Questa spinta è resa oggi ancora più consistente dal fatto che buona parte delle forze nazionaliste, anti-europeiste, hanno fatto del rifiuto del Green deal uno dei loro principali cavalli di battaglia accanto a quello, tradizionale, anti-immigrazione. Tutto ciò influisce, certo, su come le opinioni pubbliche e gli stessi governi europei vedono il Green deal, ma questa ondata di ecoscetticismo non va drammatizzata. Certamente le istituzioni europee troveranno strade per rendere più flessibili alcune decisioni che fanno parte del Green deal europeo. Ma questa non è una singola regola che si può sospendere. Non è come il Patto di stabilità che si può derogare: è un pacchetto di decine di misure legislative e il fatto che la Commissione europea preveda di flessibilizzarne alcune, di posticipare qualche scadenza in programma, non ha niente a che fare con l’idea di cancellare l’intero progetto. Sarebbe una follia, anche perché l’economia e alcuni grandi attori globali, a cominciare dalla Cina, non hanno affatto rallentato nel loro cammino green: l’Europa deve rendere il suo di cammino più elastico, deve costruirvi intorno un consenso sociale più vasto, ma interromperlo sarebbe suicida.

Nel Green deal ci sono alcune misure che almeno sul piano simbolico riassumono l’immagine di questo processo. Due in particolare: la scadenza al 2035 per la possibilità di immatricolare auto con motore endotermico e le norme sull’efficientamento energetico degli edifici. In parte hai già risposto: pensi sia possibile che queste due “regole” vengano ricalibrate?

Non soltanto è possibile ma credo che sarebbe ragionevole. Le decisioni prese in questi anni non sono tavole della legge scolpite nel marmo, e va considerato che oggi la transizione ecologica non è solo apertamente osteggiata da alcune forze politiche, soprattutto dalle destre cosiddette “sovraniste”, ma talvolta solleva sospetto e timore anche nella generalità della popolazione. Il caso più vistoso è capitato in Germania con la proposta dei Verdi tedeschi, i Grünen, di mettere al bando dal 2024 le caldaie a gas: è stata travolta da una reazione non del partito di estrema destra AfD, ma di buona parte dell’opinione pubblica. Dunque, va fatto il massimo sforzo sia per rendere alcune misure del Green deal più flessibili, sia per introdurre meccanismi di compensazione economica per le fasce sociali e per i settori industriali penalizzati dalla transizione ecologica. Invece va combattuta l’idea che la transizione verde sia un “nemico” da abbattere, e soprattutto vanno contrastati i tentativi di usarla come capro espiatorio per problemi che hanno tutte altre cause. Faccio un esempio che riguarda l’Italia: la nostra industria vive da un paio d’anni una fase di difficoltà, ma pensare e dire che queste difficoltà si risolverebbero in un lampo rendendo più flessibili le previsioni normative del Green deal è una sciocchezza. Se anche la Commissione europea dovesse rendere meno stringenti alcune misure verdi, non è che questo cancellerebbe i ritardi del nostro sistema industriale nell’innovazione…

Il Green deal nasce prima di tutto come risposta alla crisi climatica, i cui effetti dannosi sono anche sociali ed economici, e colpiscono dolorosamente l’Europa, che per la sua collocazione geografica è una delle aree del mondo più esposte. Una parte del mondo scientifico sottolinea spesso che i tempi della risposta alla crisi climatica non possono prescindere dai tempi delle sue dinamiche oggettive. Come si può affrontare questo bivio che appare contraddittorio?

In democrazia c’è solo un modo di gestire i grandi cambiamenti: convincere la maggioranza dell’opinione pubblica, dei cittadini, che la transizione ecologica è necessaria e che può essere anche utile a rafforzare l’economia e ad accrescere il benessere. Così, da una parte bisogna opporsi alle posizioni che negano la crisi climatica o che la considerano politicamente marginale, dall’altra occorre evitare che la risposta a questo grande problema si vesta di decisioni impopolari per ragioni sociali ed economiche, e quindi rischi di bloccarsi. Io sono convinto che l’Europa abbia pieno interesse a mantenersi all’avanguardia dei processi di transizione ecologica, peraltro irreversibili. Però dobbiamo essere consapevoli che questo cammino ha bisogno di consenso sociale, che servono interventi per sostenere i settori economici che dal Green deal hanno da perdere. Questa logica del resto vale anche per l’innovazione digitale: naturalmente va favorita, ma sostenendo chi ne viene danneggiato. Purtroppo, in alcuni Paesi europei, tra cui il nostro, entrambe queste transizioni sono viste con sguardo ideologico: sì o no, a prescindere.

Continuando a parlare di consenso ti chiedo: sei un giornalista (dal 1984 al 1992 direttore della nostra rivista La Nuova Ecologia, ndr) e ti sei occupato di questioni climatiche quando pochissimi conoscevano e riconoscevano il problema.
Pensi che quanti per primi hanno lanciato l’allarme sulla crisi climatica – scienziati, ambientalisti – abbiano compiuto errori nell’impegno per divulgare l’urgenza di agire per arginarla?

Prima ho citato uno di questi errori a proposito della proposta dei Verdi tedeschi sul bando delle caldaie a gas: veniva da uno dei leader dei Grünen, un politico di grande valore, ma che ha sottovalutato l’impatto sociale di una scelta che coinvolgeva milioni di famiglie. Questo però resta un episodio circoscritto: oggi il vero pericolo per la transizione ecologica è in un’asimmetria tra rifiuto e consenso. Alcune forze politiche hanno fatto del no al Green deal una loro priorità, mentre tra quanti la sostengono c’è molta timidezza nel manifestare e articolare il proprio sì. Detto in altri termini: i contrari, in questo momento, sembrano più convinti dei favorevoli. L’effetto dannoso di questo squilibrio è culturale prima che politico: le posizioni per le quali la transizione ecologica danneggerebbe l’economia, le famiglie, in particolare il ceto medio, rischiano di prevalere e di contagiare non solo la politica ma anche le rappresentanze sociali, il mondo produttivo, il mondo sindacale. Questo pericolo va scongiurato, anche correggendo la tendenza che c’è stata in questi anni a calare dall’alto le decisioni sul Green deal, tacendone o sottovalutandone i contraccolpi sociali: fenomeni come quello dei Gilets jaunes (Gilet gialli, ndr) francesi nascono da qui.

Dalla Seconda guerra mondiale, Europa e Stati Uniti non sono mai stati così lontani nel modo di vedere il presente e il futuro. Tu credi che oggi l’alleanza transatlantica, la Nato, almeno nella funzione per la quale sono nate, siano oggettivamente in pericolo?

Spero che le posizioni di Trump siano messe di fronte alle drammatiche conseguenze economiche e soprattutto politiche di una lacerazione del legame transatlantico. Ma detto questo, se si fotografa la situazione odierna senza proiettarla nel futuro, è evidente che Donald Trump rischia di mettere in discussione l’ordine mondiale, che negli ultimi 80 anni è ruotato intorno agli Stati Uniti. Può darsi, e mi auguro, che questa sia una crisi passeggera e penso che l’Europa non abbia interesse a drammatizzarla anche perché la prospettiva che si affermi un’autonoma sovranità europea non è vicinissima. Ma la realtà va sempre guardata in faccia, e la realtà di adesso è che il principale pilastro dell’ordine mondiale sta mettendo a rischio l’ordine stesso.

Estratto di un’intervista realizzata per La Nuova Ecologia a inizio aprile, pochi giorni prima della scomparsa di Papa Francesco, per la community di Fondimpresa, il fondo per la formazione di Confindustria e sindacati confederali

Roberto Della Seta

Roberto Della Seta (Roma 1959) è stato coordinatore del comitato scientifico e presidente nazionale di Legambiente. Dal 2008 al 2013 è stato capogruppo del Partito democratico nella Commissione ambiente del Senato. Attualmente è direttore scientifico della società eprcomunicazione e direttore del Festival nazionale dell’economia circolare. Giornalista, è autore di saggi sulla storia delle idee ecologiche del Novecento.