Skip to main content

Eolico, gli antagonisti del Mugello arroccati nel paesaggio fossile

Ogni civiltà modella un suo paesaggio, e quindi è bene essere franchi con noi stessi: non potrà esserci una civiltà post-fossile senza una modifica del paesaggio fossile
 |  Nuove energie

Trasparenza, partecipazione, speculazione, biodiversità, paesaggio: è il lessico del dibattito seguito all’occupazione e danneggiamento del cantiere delle pale eoliche sul Monte Giogo, in Mugello. Di trasparenza e partecipazione, ampiamente assicurata da una procedura di inchiesta pubblica unica in Italia, è già stato scritto; la speculazione, per una società che distribuisce i propri utili ai Comuni soci e ai Comuni sede di impianti, e sostiene iniziative sociali e culturali a largo raggio, si fa davvero fatica a rinvenire. Rimane in campo la questione della biodiversità e del paesaggio, soprattutto il paesaggio, evocato come valore intoccabile.

Secondo gli antagonisti di Monte Giogo, impianti come quello che cercano di ostacolare devastano il paesaggio e “generano disastri che comportano risposte emergenziali in un ciclo infinito”, leggo dal loro volantino. Singolare che per gli autori dell’occupazione l’emergenza sia il cantiere non la crisi climatica; che il disastro siano le opere di accesso, non le foreste schiantate dalla tempesta Vaia o le alluvioni in Emilia Romagna. Con un paradossale testa coda ideologico le motivazioni degli occupanti, tristemente condivise nei contenuti, non nei modi, anche da altri soggetti associativi, finiscono per saldarsi con gli interessi dei sostenitori della civiltà fossile e della sua immodificabilità. Per gli uni e per gli altri, l’emergenza climatica finisce in uno sfondo indistinto e tutto sommato non urgente. Per entrambi frenare la transizione, e le sue “emergenze disastrose", è l’imperativo.

Questa saldatura è ancora più evidente in un altro passaggio dell’appello degli occupanti secondo cui l’occupazione può trasformarsi in un’occasione per “riscoprire forme di autonomia materiale e spirituale, frammentando questo mondo unico e ostile, in tanti mondi, finalmente abitabili”. Ma il mondo unico e ostile che nega l’autonomia materiale non è il mondo della dipendenza fossile, dell'immensa rete logistica e infrastrutturale che assicura il flusso di gas e petrolio, governato della più grandi società del capitalismo globale. No, il mondo unico e ostile è quello della possibilità di produrre energia nei territori, anche quelli marginali che dicono di voler difendere, con tecnologie accessibili, con possibili forme di controllo “democratico” e di distribuzione dei benefici. Le major della civiltà fossile non potevano trovare miglior alleato.

Ma per tornare al lessico iniziale il fattore scatenante, il pretesto mobilitante, rimane il paesaggio: “la terra rivoltata, il crinale spianato, le sorgenti d'acqua intubate” e l’estetica turbata, aggiungo io. Se paesaggio significa “un'area, così come percepita dalle persone, il cui carattere è il risultato dell'azione e dell'interazione di fattori naturali e/o umani” (Convenzione europea del paesaggio), non c’è dubbio che il paesaggio attuale, almeno il quello che riteniamo “nostro”, è il paesaggio della civiltà fossile. Frutto dell'interazione dei fattori naturali con lo straordinario sviluppo del dopoguerra, supportato dal crescente flusso di combustibili fossili.

Questo paesaggio incorpora il crinale del Mugello quanto le raffinerie di Porto Marghera, in faccia Venezia, le ventose alture della Sardegna quanto il polo chimico di Ferrara, e gli esempi potrebbero continuare. Ma soprattutto incorpora le abetine dell'Altopiano di Asiago schiantate dalla tempesta Vaia, le aride campagne siciliane martoriate dalle temperature infernali, il ghiacciaio esangue della Marmolada. Incorpora tutti i segni e le ferite della crisi climatica. Tutto questo è il nostro paesaggio, ed è il paesaggio della civiltà fossile. Come tutto il mondo fossile e il suo immaginario, così fortemente radicato nel nostro modo di vivere, esso mantiene un forte fascino, ed è diventato un bastione da difendere in una sorta di guerra culturale.

Ogni civiltà modella un suo paesaggio, lo avevano fatto le civiltà pre-fossili – tagliando i boschi, facendo nascere l’agricoltura –, lo ha fatto la civiltà fossile in cui siamo prosperati e lo farà la civiltà post-fossile, nutrita dalle fonti rinnovabili e dall'efficienza energetica. Senza voler entrare nel merito se le pale eoliche in determinati contesti disturbino un “valore estetico-percettivo la cui immagine è storicizzata” e quindi siano disturbanti, non distruggenti, è bene essere franchi con noi stessi: non potrà esserci una civiltà post-fossile senza una modifica del paesaggio fossile.

Di conseguenza non si potrà contrastare l’emergenza climatica se l’emergenza sono i cantieri e il valore assoluto è il paesaggio fossile. Dobbiamo chiederci quale paesaggio intendiamo difendere, prima di indicare dove vogliamo difenderlo. Anche per il paesaggio siamo ancora ostaggi della civiltà fossile e stentiamo a immaginare un paesaggio post-fossile. Possiamo ergerci a difensori del primo o tentare, faticosamente e non senza contraddizioni, di costruire il secondo. Consapevoli, ciascuno, di quale futuro porta in grembo quello per cui propendiamo.

Stefano Fracasso

Vicepresidente di AGSM AIM, è docente di chimica e biologia in un liceo. Ha raccontato la crisi climatica in “Per un pugno di gradi. La svolta energetica per cambiare il Veneto” (Nuova Dimensione 2020). Da consigliere regionale ha curato il primo rapporto sulla decarbonizzazione del Veneto, realizzato dal Centro Studi Levi Cases. Ha da poco pubblicato “‘O sole mio. Perché gli scettici non fermeranno l’era delle rinnovabili” (Post Editori 2025), dove discute le posizioni dei “frenatori” della transizione energetica e le traiettorie di una possibile civiltà post- fossile.