L’Italia verso il recepimento della direttiva Red III, con poca ambizione
La transizione energetica non è uno slogan né un esercizio accademico: è una necessità concreta che riguarda la vita quotidiana delle famiglie, la bolletta elettrica, il futuro delle piccole e medie imprese e la competitività del Paese. È su questo terreno, molto concreto, che si misura oggi la credibilità delle scelte del Governo sul recepimento della direttiva europea sulle energie rinnovabili, la cosiddetta RED III.
L’Europa ha fissato un obiettivo chiaro: almeno il 42,5% di energia da fonti rinnovabili entro il 2030, con l’aspirazione di arrivare al 45%. Il Governo italiano, invece, sceglie di fermarsi al 39,4%. Può sembrare una differenza marginale, ma non lo è affatto. Significa meno investimenti, meno occupazione qualificata, più dipendenza da gas e petrolio importati e, soprattutto, bollette più esposte alle crisi geopolitiche. Un costo che ricade in modo diretto su cittadini e PMI, già messi alla prova dall’aumento dei prezzi dell’energia.
Uno dei punti più critici dello schema di decreto, l’Atto del Governo n. 324, riguarda il settore dei trasporti, responsabile di una quota rilevante delle emissioni climalteranti e del consumo di combustibili fossili. Nel testo manca il pieno recepimento degli obiettivi europei: senza regole chiare su elettrificazione, biocarburanti realmente sostenibili e nuovi combustibili puliti, le imprese non investono e i cittadini restano senza alternative concrete all’auto tradizionale. La strada maestra è l’elettrificazione dei consumi, che riduce la dipendenza energetica e nel tempo anche i costi. Idrogeno verde e carburanti sintetici vanno invece riservati ai settori dove non esistono soluzioni immediate, come l’aviazione e il trasporto marittimo di lungo raggio.
C’è poi il tema delle biomasse. Usare il legno per produrre energia ha senso solo come ultima opzione, dopo il riuso e il riciclo. Le deroghe previste dal decreto rischiano invece di incentivare l’incenerimento di materiale che potrebbe essere valorizzato industrialmente, in contrasto con i principi dell’economia circolare e con effetti negativi su ambiente e territori. Ancora una volta, a pagare sono le comunità locali.
Un altro nodo centrale riguarda gli incentivi. Promuovere le rinnovabili è giusto, ma farlo scaricando costi aggiuntivi in bolletta su famiglie e piccole imprese non lo è. Gli oneri di sistema colpiscono soprattutto chi consuma meno e ha minore capacità contributiva. Per questo è fondamentale legare gli incentivi all’energia effettivamente prodotta e immessa in rete, evitando meccanismi che rischiano di gonfiare i costi senza benefici proporzionati.
Grave è anche il ridimensionamento delle risorse per le Comunità Energetiche Rinnovabili, uno degli strumenti più efficaci per coinvolgere cittadini e PMI, ridurre le bollette e redistribuire i benefici della transizione sui territori. Senza un vero sostegno alle CER e senza una reale semplificazione burocratica, la transizione resta un privilegio per pochi.
La transizione energetica deve entrare con decisione anche negli edifici: ogni volta che si sostituisce un impianto di riscaldamento, bisogna dire chiaramente addio alle caldaie fossili. Rimandare con formule vaghe significa solo spostare il problema nel tempo e scaricarlo sulle prossime generazioni.
Infine, c’è una questione spesso sottovalutata: le competenze. Senza tecnici qualificati, pubbliche amministrazioni preparate e filiere industriali solide, la transizione resta sulla carta. Investire in formazione, rafforzare la partecipazione democratica e coinvolgere imprese e lavoratori non è un dettaglio, ma la condizione per trasformare la sfida climatica in un’opportunità di sviluppo.
La transizione energetica può essere un vantaggio per tutti, ma solo se è ambiziosa, giusta e trasparente. Altrimenti rischia di diventare l’ennesima promessa mancata, pagata da cittadini e piccole imprese.