Skip to main content

I 500 mln di euro annunciati, calati nel contesto nazionale, bastano appena per 60 professori

L’Ue vuole attirare i ricercatori stranieri, ma l’università italiana non ha fondi neanche per i propri

Mazzanti: «Solo al nostro Paese servirebbero almeno 300 mln di euro per un piano credibile di assunzioni in ambito universitario»
 |  Scienza e tecnologie

La Commissione europea e l’Eliseo hanno presentato in pompa magna, a inizio maggio nella prestigiosa sede parigina della Sorbona, l’eloquente iniziativa Choose Europe for science che si propone – come suggerito da mesi in ambito accademico e non solo – di aprire le porte ai ricercatori di tutto il mondo per rafforzare la propensione europea all’innovazione. Neanche troppo tra le righe, l’obiettivo è quello di accogliere i molti accademici in fuga dalle politiche persecutorie messe in atto oltreoceano da Donald Trump.

Oggi i professori sono woke per definizione e dunque il nemico per l’amministrazione Usa, incoraggiando di fatto l’espatrio per professionisti che potrebbero essere di grande utilità nell’accelerare la doppia transizione (verde e digitale) in corso in Europa, e più in generale per costruire un’economia della conoscenza, investendo in settori ad alto valore aggiunto per garantire maggior benessere alla società nel suo complesso.

La presidente von der Leyen ha messo sul piatto la proposta di «un nuovo pacchetto di 500 milioni di euro per 2025-2027 per fare dell’Europa un polo di attrazione per i ricercatori», spiegando che intende portare gli investimenti in ricerca e sviluppo al «3% del Pil, a medio-lungo termine», cioè entro il 2030, quando – ricordiamo – l’Agenda di Lisbona prevedeva già di raggiungere questo obiettivo, ma per il 2020.

Adesso la Commissione Ue ha aggiunto un nuovo tassello alla strategia: questi 500 milioni di euro rientrano adesso in un pacchetto da 7,3 miliardi di euro, pensato per rafforzare gli investimenti in innovazione e rendere l’Ue «un magnete» per i ricercatori di tutto il mondo.

Un obiettivo ambizioso per una strategia che, scavando appena sotto la superficie, si rivela di fatto la riallocazione in versione matrioska di risorse già stanziate: i 500 mln di euro fanno parte dei 7,3 appena annunciati, che a loro volta rientrano nell’ambito dei fondi Horizon Europe – il principale programma di ricerca e innovazione dell’Ue – da 93,5 miliardi di euro per il periodo 2021-27.

Secondo Stéphane Séjourné, vicepresidente esecutivo della Commissione Ue per la Prosperità e la Strategia industriale la ricerca e l'innovazione «sono al centro della competitività europea: con questo investimento di 7,3 miliardi di euro attraverso Horizon Europe per il 2025, rafforzeremo la prosperità e la competitività europee, affronteremo le principali sfide in materia di sicurezza e difesa e faciliteremo la transizione verde». Se questa è la speranza, basterà il gioco delle tre carte con fondi già esistenti per realizzarla? In prima battuta la risposta non può che essere negativa: basti osservare l’impatto risibile dell’iniziativa più altisonante, ovvero i 500 mln di euro pensati per attrarre ricercatori in primi statunitensi, declinato nel caso concreto del nostro Paese.

«Il Pil italiano vale circa il 12% di quello europeo, dunque pro quota da quei 500 spetterebbero al nostro Paese 60 milioni di euro: considerando che un professore ordinario costa 1 milione di euro su 15 anni, questo vorrebbe dire avere fondi per assumere 60 docenti o un’ottantina di ricercatori, meno di uno per Ateneo italiano», spiega a greenreport l’economista ambientale Massimiliano Mazzanti (nella foto, ndr), ordinario di Politica economica all’Università di Ferrara e direttore del centro di ricerca interuniversitario Seeds: «A livello europeo un piano credibile in tal senso dovrebbe poter contare su risorse pari ad almeno 5 miliardi di euro anziché 500 milioni: guardando al benchmark internazionale per gli investimenti in R&S, ovvero alla Corea del Sud (che investe quasi il 5% del Pil anziché l’1,37% dell’Italia, ndr), solo al nostro Paese servirebbero almeno 300 mln di euro per un piano credibile di assunzioni in ambito universitario, anche considerando che il costo della vita in città come Roma, Milano ma ormai anche Bologna, è alle stelle. Senza dimenticare che per attirare un professionista dagli Stati Uniti non basta agire sui salari: i nostri ricercatori sono abituati a cavare il sangue dalle rape, mentre negli Usa non è così, e si aspettano infrastrutture, tools, laboratori all’altezza, garanzie sul fronte staff e assistenti anche amministrativi, tutti fronti su cui l’Italia si presenta ad oggi totalmente inadeguata».

Non a caso questa settimana è stata caratterizzata da scioperi e proteste dei ricercatori italiani: il 42% è precario, e il disegno di legge nato partorito dalla ministra Bernini per una nuova riforma del settore rischia di peggiorare ulteriormente la situazione. Di certo le leggi di bilancio approvate negli ultimi due anni dal Governo Meloni hanno ridotto il fondo di finanziamento ordinario delle università di 700 milioni di euro fino al 2027: un taglio che, da solo, vale più dei 500 mln messi in campo dall’Ue per attirare ricercatori dall’estero. Risultato? Paradigmatico quello dell’ultimo bando arrivato a febbraio dal ministero per i contratti di ricerca, che riguarda l’assunzione di ricercatori internazionali post-dottorato, peraltro attingendo a fondi Pnrr: cuba 39 milioni di euro per tutta l'Italia.

«Da qui arriveranno all’Università di Ferrara 320mila euro in due anni, per assumere 4 ricercatori a circa 1.500 euro netti al mese o 40mila euro lordi all’anno che dir si voglia – snocciola Mazzanti – Nel nostro Ateneo abbiamo 13 dipartimenti: abbiamo dovuto estrarre a sorte a quali assegnarli, non c’era alternativa. Questo è il segnale che l’Italia manda a Bruxelles sul fronte ricerca e sviluppo».

Luca Aterini

Luca Aterini, toscano, nasce settimino il 1 dicembre 1988. Non ha particolari talenti ma, come Einstein, si dichiara solo appassionatamente curioso: nel suo caso non è una battuta di spirito. Nell’infanzia non disegna, ma scarabocchia su fogli bianchi un’infinità di mappe del tesoro; fonda il Club della Natura, e prosegue il suo impegno studiando Scienze per la pace. Scrive da sempre e dal 2010 per greenreport, di cui è oggi caporedattore.