Quanto costa fare il pieno all’auto elettrica? A causa della fiscalità non a tutti conviene
In Italia come in larga parte del resto d’Europa soffia un vento contrario alla transizione ecologica, col tentativo di rivedere lo stop ai motori non a emissioni zero già deciso per il 2035 a emergere come un caso scuola. Si tratta di una tendenza fomentata da partiti conservatori, che cercano di resistere a un cambiamento ormai inevitabile: la maggiore efficienza dei motori elettrici (dove quasi la totalità dell’energia arriva alla ruota, mentre nei motori a combustione oltre il 70% si perde in calore di scarto), la crescente economicità delle batterie, l’urgenza di una maggiore autonomia strategica dal giogo dei combustibili fossili e un’ormai ineludibile necessità di affrontare le crisi ambientali in atto – dalla crisi climatica all’inquinamento atmosferico, che da solo miete oltre 50mila vite l’anno solo in Italia – indicano la strada verso il futuro.
Se non vogliamo far fare agli occupati del settore automotive la fine dei cocchieri – quando l’auto sostituì le diligenze – sarà il caso di accompagnare il passaggio inevitabile all’elettrico, invece di ostacolarlo, e riconvertire quei lavoratori. Ormai non solo gli ambientalisti, ma le stesse case automobilistiche affermano che «attribuire la crisi del settore auto al Green deal è una narrazione fuorviante» e che «non vi è dubbio che il Green deal non sia la causa della crisi», come ribadito più volte anche dall’Unrae. Tra i motivi c’è piuttosto il forte aumento del costo delle auto tutte, mentre sale il rischio di povertà ed esclusione sociale nel Paese (che riguarda oggi 13,5 milioni di persone) e l’assenza di politica industriale da parte del Governo, che ha tagliato brutalmente le risorse del Fondo Automotive: sono passate dagli 8,7 miliardi di euro inizialmente previsti entro il 2030 a soli 450 milioni nel 2025 e 200 milioni annui per gli anni successivi. In compenso, anche l’ultima trovata del Governo Meloni per guidare la transizione del settore automotive si preannuncia già come un buco nell’acqua.
Ma affinché acceleri la diffusione delle auto elettriche, la loro maggiore efficienza deve tradursi anche in un minor costo per l’acquisto del “pieno” di elettroni rispetto a quello di carburante. E su questo fronte c’è ancora molto da lavorare, come emerge da un recente studio prodotto dal think tank Ecco.
«A oggi, la ricarica di un kWh di elettricità nella batteria di un’auto elettrica costa di più del rifornimento di un kWh di un qualsiasi carburante fossile – spiega a greenreport Massimiliano Bienati, responsabile delle politiche per i trasporti del think tank Ecco – Grazie alla sua maggiore efficienza energetica, l’auto elettrica rimane comunque l’opzione economicamente più conveniente a parità di km percorsi ricaricando da casa o da ufficio, dato che l’elettricità è utilizzata da un’auto elettrica con un’efficienza energetica da 3 a 5 volte superiore rispetto a un veicolo tradizionale a combustione equivalente: per 10.000 km di percorrenza e considerando un mix tipico di ricariche, il risparmio di guidare elettrico è pari a circa 340 €/anno. Ma il vantaggio dell’efficienza si annulla ricorrendo a una ricarica in media tensione con tariffa Mtau (ricarica pubblica a media tensione, ndr), per cui la spesa media per percorrere 100 km risulta di 3,4 € superiore rispetto al veicolo a benzina».
«Oggi il sistema più economico è fare la ricarica collegandosi con l’impianto elettrico della propria casa, se una persona può farlo – conferma a greenreport Matteo Gizzi, responsabile Market intelligence di Motus-E, associazione di settore dell’ampia filiera della mobilità elettrica – Le auto elettriche sono abilitate a questo tipo di collegamento, i contratti normali domestici sono da 3 o 4,5 kW ma Arera e Gse consentono agli utenti domestici di passare nella propria casa a 6 kW se hai un auto elettrica, senza aumentare i costi».
Il problema dell’economicità del pieno di elettroni si circoscrive dunque agli utenti che non hanno la possibilità di usare fornitura domestica o in ufficio, o di lunghe soste alle colonnine pubbliche in bassa tensione. Che sono però molti: si pensi allo stuolo di condomini senza posto auto che punteggiano lo Stivale.
«Il prezzo del servizio di ricarica non è regolato da Arera, si tratta di un prezzo di libero mercato – dettaglia Gizzi – Naturalmente il prezzo che paga l’automobilista include non solo il costo dell’energia del provider, ma anche i costi di investimento delle colonnine ed il suo margine, oltre a un secondo passaggio di Iva». Per chi pensa che il quadro possa migliorare semplicemente aumentando il numero delle colonnine pubbliche, è utile ricordare come la risposta semplice a un problema complesso è spesso quella sbagliata: «Al contrario oggi abbiamo troppi punti di ricarica rispetto ai veicoli elettrici immatricolati (meno di 400.000) e si stanno diffondendo i punti di ricarica ad alta potenza – osserva Gizzi – Oggi gli investimenti in punti di ricarica sono scoraggiati da un basso tasso di incremento del parco di veicoli elettrici».
Il classico caso del cane che si morde la coda. Come se ne esce? «La causa di questa situazione è imputabile soprattutto al peso degli oneri generali di sistema che gravano sulle tariffe elettriche – spiega Bienati – Se la fiscalità e parafiscalità applicata alle ricariche da utenze domestiche riflette un valore comparabile alla tassazione della benzina, e comunque nettamente superiore a quello di gasolio e Gpl, questa cresce in modo sproporzionato quando si tratta di ricariche pubbliche, soprattutto in media tensione, a causa della modalità con cui le quote di oneri generali di sistema vengono allocate nella tariffa elettrica».
Guardando l’incidenza dell’imposizione fiscale e parafiscale in relazione alle emissioni di CO2, risulta che alle ricariche elettriche è applicato un costo per tonnellata di CO2 emessa decisamente superiore rispetto ai carburanti fossili, con una punta di quasi 900 €/tCO2 per le ricariche a media tensione. «Si tratta a tutti gli effetti di una carbon tax al contrario – aggiunge Bienati – se si considera che chi guida un veicolo elettrico sta di fatto utilizzando elettricità di un mix sempre più decarbonizzato grazie alle rinnovabili».
Il carico fiscale e parafiscale parametrato alle emissioni di CO2 dei diversi vettori energetici risulta essere decisamente superiore per le alimentazioni elettriche, arrivando a valori di 3,5 volte nel confronto tra la ricarica elettrica pubblica e il diesel: si tratta di una situazione che lascia ampio margine per interventi correttivi, che possono riguardare – se non un aumento dal carico fiscale che grava sui carburanti fossili, con particolare riferimento a diesel e Gpl – certamente una riduzione del peso degli oneri generali di sistema sulle tariffe delle ricariche elettriche, con particolare riferimento a quelli gravanti sulle ricariche condominiali e pubbliche.
Secondo lo studio di Ecco, una progressiva (e anche solo parziale) chiusura del gap dell’accisa tra benzina e diesel risulta sufficiente a coprire, in una prospettiva di medio periodo (sino 2035), l’alleggerimento degli oneri sulle ricariche elettriche, senza generare ulteriori esigenze di ricorso alla fiscalità generale; un’opzione però che ad oggi non sembra facilmente percorribile, dato che il decreto interministeriale 14 maggio 2025 col quale il Governo ha avviato il riallineamento tra accise di gasolio e benzina prevede all’art. 3 che le maggiori entrate derivanti dall’aumento sul gasolio sono destinate al Fondo nazionale per il trasporto pubblico locale. Il quadro, occorre però precisare, è in via d’evoluzione: la proposta di Legge di bilancio 2026 (art. 30) prevede di chiudere l’allineamento tra le accise diesel e benzina in un colpo solo a partire dal 2026 e di dedicare l’extragettito di questa accelerazione non più al fondo Tpl ma al fondo Delega fiscale: solo il ricavato del primo allineamento (1,5 centesimi) andrebbe dunque al Tpl mentre l’extragettito derivante dal chiudere il gap in anticipo (4,05 cent di riallineamento veloce) andrebbe al fondo Delega fiscale.
«Accorciando i tempi di allineamento delle accise tra diesel e benzina – osserva Bienati – si liberano ulteriori consistenti risorse utilizzabili per una riforma dell’imposizione fiscale e parafiscale che grava sulle tariffe elettriche per le ricariche, tema che dovrebbe far parte di un pacchetto di riforma fiscale complessiva per l’energia. Senza considerare che ci sono anche altri Sad su cui è possibile intervenire per recuperare risorse utili allo scopo, non da ultimo una rimodulazione dello sconto sulle accise del gasolio commerciale per autotrasporto, che pesa sul bilancio dello stato per oltre un miliardo di euro l’anno».
Per quanto complesso, è necessario sottolineare che non si tratta “solo” di portare avanti la necessaria riforma dei sussidi ambientalmente dannosi (Sad). La necessità di delineare un nuovo approccio fiscale alla mobilità senza generare buchi nel bilancio dello Stato deriva dalla progressiva disaffezione verso l’auto privata che attraversa (anche) la società italiana: in base agli scenari di riferimento del Pniec e della Strategia di decarbonizzazione, all’elettrificazione della flotta si accompagna una riduzione del parco circolante del 25% al 2040 e del 40% al 2050. Una rivoluzione rispetto a quanto sperimentato negli ultimi 70 anni, anche sotto il profilo del gettito.
Alla realizzazione di quest'articolo ha contributo anche Andrea Sbandati