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La risposta ai dazi di Trump? Servono salari più elevati e maggiori investimenti interni. Per superare il modello economico export-led abbiamo bisogno d’innovazione, sostenibilità ambientale e nuova imprenditorialità

 |  Editoriale

Abbiamo l’accordo commerciale fa Trump e von der Leyen: prevede l’imposizione di un dazio unico del 15% sulla maggior parte delle esportazioni europee verso gli Usa (incluse auto, semiconduttori e (?) farmaci), evitando il rischio di tariffe al 30%. Sono esclusi dai dazi alcuni prodotti strategici (aeromobili, chimica, generici, semiconduttori, materie prime). Su acciaio e alluminio restano i dazi attuali (fino al 50%), ma con un nuovo sistema di quote. L’Ue si impegna inoltre ad acquistare energia statunitense per 750 miliardi di dollari in tre anni, riducendo così la dipendenza energetica dalla Russia ma perpetuando quella dai combustibili fossili, e nuovi equipaggiamenti militari.

Che dire? Ha vinto Trump su tutta la linea. Se sommiamo i dazi al 15% e la svalutazione del dollaro al 13% dall'insediamento di Trump, attualmente acquisito, le prospettive di scambio commerciale Europa-Usa diventano molto difficili per le imprese europee. E, come asseriscono le associazioni di rappresentanza, è facile prevedere contraccolpi seri sia sui fatturati che sull’occupazione. Quindi sul Pil complessivo dei singoli Paesi, e fra i più esposti c’è sicuramente l’Italia.

Ma se ci fermiamo a questo discutiamo soltanto dell’effetto, prevedibile e scontato, del “primo colpo”. Con annesse le reazioni estreme e complementari. Cioè dalla più immediata ed emotivamente giustificata del “fuck Trump” a quella più guardinga e soppesata del “it could be worse”.

E allora cerchiamo di riavvolgere il nastro della storia commerciale del mondo globale degli ultimi decenni. E proviamo ad approfondire, al di là del gioco delle bandierine e degli “sbilanci commerciali”.

Nel sistema economico globale, la bilancia commerciale è un gioco a somma zero: il surplus di un Paese è, per definizione, il disavanzo di un altro. Eppure, questo principio elementare è spesso ignorato nel dibattito pubblico, che tende a celebrare l’attivo commerciale come una virtù in sé (una bandierina, appunto).

Nel lungo periodo, invece, ogni Paese dovrebbe tendere a una bilancia commerciale strutturalmente in pareggio. Gli squilibri possono essere fisiologici, legati al ciclo economico o a shock temporanei, ma quando diventano cronici – come nel caso della Germania o della Cina – iniziano a produrre distorsioni rilevanti, sia a livello interno che internazionale.

Un surplus commerciale persistente segnala, in sostanza, che un Paese consuma e investe meno di quanto produce. In altri termini, la sua crescita dipende più dalla domanda estera che da quella interna. Questo può deprimere i salari, frenare la dinamica degli investimenti pubblici e privati, e rendere l’economia vulnerabile agli andamenti del commercio globale.

Il risultato è un sistema globale squilibrato, in cui l’insistenza su modelli export-led da parte di più Paesi contemporaneamente può finire addirittura per rallentare la crescita complessiva.

Gli Stati Uniti, con il dollaro egemone che poteva essere speso al di fuori del Paese senza venire poi “riportato indietro” per la conversione, hanno funzionato da equilibratore del sistema. Con un evidente vantaggio di vivere al di sopra delle proprie possibilità, a spese però del resto del mondo. Una contraddizione più volte sottolineata dai migliori economisti americani e oggi del tutto ribaltata da Trump e dalla sua narrazione sovranista.

Trump vuole un mondo con le bilance commerciali, comprensive del settore servizi, in pareggio. Salutiamo tutto ciò con un grande: finalmente! E invece di fermarci all’impatto della transizione, che può comportare anche alcune ferite, cominciamo a costruire senza rimpianti il nuovo futuro dell’economia globale.

Per rafforzare questo processo di transizione occorre guardare a due aspetti della nostra economia europea e nazionale. Il primo macroeconomico e il secondo produttivo, a livello di impresa.

Dal punto di vista macroeconomico dobbiamo sostituire lo sbilancio positivo col mondo esterno con un incremento di interscambio all’interno dell’Europa, rafforzando il mercato unico e liberandolo da lacci e lacciuoli, aumentando al contempo il volume dei consumi e quello degli investimenti.

Senza dilungarci troppo nelle proposte, si tratta di porre a livello di centralità il tema dell’innalzamento dei salari e degli stipendi, evitando di traguardarli esclusivamente alla competitività interazionale, e sostenendo un aumento sensibile e duraturo degli investimenti. I settori che attendono un nuovo ciclo degli investimenti sono stati peraltro già enunciati dal rapporto Draghi. Aggiungerei a quella lista gli investimenti relativi alle politiche di adattamento al cambiamento climatico, aprendo in tal modo una prospettiva credibile e foriera di nuovo slancio. L’Europa ha bisogno di innovazione, sostenibilità ambientale e nuova imprenditorialità.

Il tema più critico risulta, nel breve periodo, quello produttivo. Il modello export-led italiano ed europeo, con la Germania in testa, ha plasmato i caratteri settoriali e imprenditoriali dell’industria e del sistema dei servizi.  È un sistema che va aiutato alla riconversione, come ha accennato giustamente la presidente del Consiglio Meloni, ma non nell’attesa di ritornare ai bei tempi passati, quanto piuttosto nell’aprire nuove strade.

E in queste nuove strade emerge con forza, nel nostro Paese, il tema giovani e formazione. Siamo troppo lenti nel capire il bisogno che abbiamo di giovani, preparati nel campo delle nuove tecnologie e della gestione economica delle imprese. E stiamo balbettando di fronte al fatto che molti giovani, preparati e impegnati, se ne stanno andando dall’Italia. Lì sta l’innovazione di cui l’Italia e l’Europa hanno necessità. Ed è lì che sta la risposta vera alla narrazione sconclusionata di Trump e ai provvedimenti improvvidi che portano avanti gli Usa in questa fase della storia.

Non stiamo a difenderci e a leccarci le ferite. Acquisiamo la consapevolezza della forza e della grandezza dell’Europa. L’aiutino degli Usa è finito. Facciamocene una ragione, e andiamo avanti.

Mauro Grassi

Mauro Grassi, economista, ha lavorato come ricercatore capo nell’Istituto di ricerca per la programmazione economica della Toscana (Irpet), ha lavorato a Roma come dirigente caposegreteria del Sottosegretario ai Trasporti Erasmo D’Angelis (Ministero delle Infrastrutture) e quindi come direttore di Italiasicura (Presidenza del Consiglio) con i Governi Renzi e Gentiloni. Attualmente è consulente e direttore della Fondazione earth and water agenda.