Idroelettrico, riassegnazioni o project financing per sciogliere il nodo delle concessioni
L’Italia è oggi il terzo Paese in Europa per potenza idroelettrica installata, con 22,9 GW dietro soltanto a Norvegia e Francia; sono oltre 53 i TWh prodotti nel 2024, il che significa che l’energia dell’acqua l’idroelettrico ha coperto circa il 15% dei consumi elettrici nazionali e il 46% della generazione da fonti rinnovabili. Il problema è che l’86% delle concessioni di grandi derivazioni idroelettriche è già scaduto o scadrà entro il 2029: il 17% risulta già scaduto nel 2024, un ulteriore 1% scadrà nel periodo 2025-2028, mentre il 68% terminerà nel 2029.
Per capire come affrontare questo nodo cruciale per la transizione energetica italiana, The European House - Ambrosetti ha presentato a Cernobbio il proprio studio – realizzato in collaborazione con Enel – Energia dall'acqua, forza e sicurezza del paese: il ruolo strategico dell’idroelettrico per l’Italia, in cui esplora le soluzioni possibili: ce ne sono tre già percorribili secondo la normativa attuale (gare tout-court, società miste e partenariato pubblico-privato) cui se ne potrebbe affacciare una quarta, basata sulla riassegnazione delle concessioni agli attuali concessionari tramite rinnovo/rimodulazione delle condizioni di esercizio a fronte di un piano industriale, e una complessiva armonizzazione ed equilibrio dell’attuale assetto dei canoni. Proprio quest’ultima – che è stata percorsa con successo in Toscana per quanto riguarda la geotermia –, con la prima alternativa del partenariato (project financing) emergono come le più promettenti.
Di certo, senza un rapido chiarimento del quadro normativo-regolatorio, il Paese rischia un ritardo di almeno 6 anni sugli investimenti. Secondo lo studio, attraverso la riassegnazione delle concessioni si potrebbero abilitare investimenti fino a 16 miliardi di euro aggiuntivi rispetto allo scenario attuale. La garanzia della continuità degli investimenti degli operatori porterebbe a benefici tangibili: un aumento della producibilità idroelettrica del 5-10%, una riduzione delle emissioni di CO₂ fino a 4,5 milioni di tonnellate; un incremento di 2 punti percentuali di rinnovabili nel mix elettrico nazionale; risparmi fino a 1,1 miliardi di euro per la collettività; la generazione di 18,5 miliardi di euro di Pil addizionale; la creazione fino a 20.800 posti di lavoro aggiuntivi salvaguardando inoltre i posti di lavoro attualmente impiegati nel settore
In alternativa, anche il project financing presenta aspetti interessanti in quanto a tempistica del processo e qualità della proposta. Secondo questa procedura, l’iter di selezione su cui viene impostato il processo competitivo parte da un progetto industriale sviluppato da un proponente privato che sgraverebbe i soggetti pubblici dal complesso lavoro di studio e preparazione della documentazione tecnica necessaria, agevolandoli nella selezione delle proposte, con possibile accelerazione dei tempi e valorizzando comunque il ruolo delle Regioni e delle Province autonome.
Il protagonismo delle Enti locali, in fase di assegnazione o project financing, permetterebbe anche di favorire ricadute socioeconomiche a livello locale, mantenendo intatti i meccanismi di mercato, essendo più difficilmente percorribile l’ipotesi (in campo nella Regione Umbria, ad esempio) di mettere l’energia idroelettrica prodotta localmente a disposizione delle imprese energivore locali, a prezzi scontati rispetto a quelli che si formano sulla Borsa elettrica.
«Nello schema legislativo italiano – come ricordato su queste pagine da Agostino Re Rebaudengo – le concessioni idroelettriche sono un diritto delle Regioni, che hanno il diritto di metterle a gara, una volta scadute. Chi vince la gara è tenuto a pagare un canone, che può essere fisso o in percentuale dell’elettricità prodotta; arrivare a soluzioni diverse da quelle previste dalla legislazione sulle gare è quello di cui si discute attualmente, sono strade difficili. Spetta dunque alle Regioni decidere cosa farne del canone: possono massimizzare l’introito della concessione per poi destinarlo agli ospedali, alla prevenzione idrogeologica, alle strade, alle scuole – in base a ciò che l’amministrazione democraticamente eletta ritiene prioritario. Nei limiti stabiliti dalla legge e dalle norme sugli aiuti di Stato, può anche decidere di sostenere attività industriali ritenute strategiche. Ciò premesso, credo che sulle concessioni idroelettriche un punto molto importante da tenere in considerazione sia la reciprocità rispetto agli altri Stati europei. Un primo aspetto da considerare è dunque quello del mantenimento di un controllo nazionale sulle concessioni italiane, anche attraverso strumenti di golden power, dato che si parla di un’energia rinnovabile strategica. Se a gara si deve andare, un'intelligente via la offre la procedura del project financing, in cui i gestori delle centrali idroelettriche con le concessioni in scadenza possono fare una proposta economica alla Regione per il rinnovo della concessione, proposta che dalla Regione verrà messa a gara per verificare se vi sono migliori offerenti».
È infatti utile ricordare che la messa a gara delle concessioni idroelettriche italiane sarebbe praticamente un unicum europeo: non ci sono altri Paesi che abbiano introdotto procedure competitive non solo per l’assegnazione di nuovi diritti d’uso delle derivazioni idroelettriche, ma anche per le riassegnazioni delle concessioni esistenti. Nel marzo 2019 la Commissione europea ha avanzato lettere di costituzione in mora con riferimento ad Austria, Francia, Germania, Polonia, Portogallo, Regno Unito e Svezia e una seconda lettera complementare di costituzione in mora all’Italia ritenendo che le normative non fossero adeguate a garantire la concorrenza. Tuttavia, nel settembre 2021 la Commissione europea ha chiuso le procedure d’infrazione di tutti gli Stati membri (ad eccezione della Francia). L’archiviazione ha riguardato anche gli Stati membri che non hanno aperto a procedure competitive (al contrario dell’Italia) e, dunque, nessun Paese europeo ha adesso alcun incentivo a modificare la propria normativa e l’Italia rimane l’unico ad averlo fatto (nel modo più ampio possibile).

Risultato? In Italia la durata delle concessioni idroelettriche è fissato a 40 anni, un orizzonte temporale ridotto rispetto a molti Paesi europei dove le concessioni hanno una durata ben più lunga o addirittura illimitata. In Francia, Portogallo e Spagna il limite massimo è di 75 anni, in Svizzera è di 80 anni, mentre in Austria può arrivare a 90 anni. Ancora più permissivo è il quadro normativo di Paesi come Norvegia, Svezia e Finlandia, dove non è previsto alcun limite temporale, favorendo così investimenti a lungo termine e una maggiore stabilità per gli operatori.


Sciogliere il nodo delle concessioni, tutelando il controllo nazionale, è oggi un fattore indispensabile per riportare a piena potenzialità l’idroelettrico italiano. Basti osservare che ad oggi le 532 grandi dighe italiane possono accogliere fino a 13,8 miliardi di metri cubi d’acqua, ai quali si aggiungono 800 mln di mc d’acqua suddivisi in 26.288 piccoli invasi, ma mediamente il 33% (4,3 mld di mc) del loro volume si riduce a causa dei detriti che si accumulano nel fondale (interrimento) con punte fino al 48% nei territori del fiume Po.
Come affermato recentemente da Greenpeace, Legambiente e Wwf «la manutenzione di queste infrastrutture, soprattutto dighe e invasi finalizzati ai pompaggi, richiederebbe un aggiornamento della normativa esistente per facilitare gli operatori a sostenere i costi dello smaltimento dei sedimenti che riempiono sempre più gli invasi, e che oggi sono costretti a smaltire in discarica», quando invece potrebbero essere utilmente impiegati come terreni fertili in agricoltura, se non ci fossero ostacoli normativi a impedirlo trattandoli come rifiuti speciali.