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Come abbassare il costo dell’energia? Il disaccoppiamento spiegato da Agostino Re Rebaudengo

«Dobbiamo dare spazio ai contratti a lungo termine a prezzo fisso»
 |  Nuove energie

Nel dibattito pubblico emerge carsicamente il problema di disaccoppiare in qualche modo il costo dell’elettricità – che sarà sempre più generata da fonti rinnovabili, le più economiche per farlo – da quello del gas fossile, che ancora determina il prezzo di mercato attraverso il meccanismo marginale, ma c’è poca chiarezza su come farlo. L’abbiamo chiesto ad Agostino Re Rebaudengo, presidente e fondatore della società benefit Asja Energy, oltre che past president di Elettricità Futura e già vicepresidente di Confindustria Energia, esplorando al contempo alcuni temi cardine per la transizione energetica italiana: dagli incentivi alle concessioni idroelettriche, fino alle scelte legislative che frenano lo sviluppo degli impianti rinnovabili.

Intervista

Secondo l’ultima relazione annuale Arera, nel 2024 tutti gli incentivi alle rinnovabili sono costati 8,9 miliardi di euro, mentre nello stesso periodo Unem stima che l’import di combustibili fossili sia arrivato a pesare per 48,5 mld di euro. L’incentivazione sembra dunque un ottimo affare per il Paese, ma perché è ancora necessaria se le rinnovabili sono già oggi – Lazard conferma – le fonti più economiche?

«La gran parte di quei quasi 9 miliardi di euro risale a impianti installati fino a 15 anni fa, la parte più rilevante si ferma a 8-10 anni fa. Investimenti fatti in un’altra epoca: ricordo che il primo impianto fotovoltaico da 1 MW che ho realizzato costava quasi 5 milioni di euro, mentre oggi serve meno di 1 mln di euro. È questo il risultato degli incentivi: hanno dato sostegno alla filiera e permesso la riduzione dei costi. A partire dal 2020 molti dei nuovi impianti installati partecipano a gare che prevedono la cessione dell’elettricità al Gse a un prezzo inferiore a quello di mercato (PUN), in alcuni casi anche significativamente inferiore, dato che si parla di cifre attorno a 70€/MWh (nell’ultimo anno il Prezzo Unico Nazionale medio calcolato sul Mercato del giorno prima della borsa elettrica è stato 108,5€/MWh, ndr); anche per le nuove aste competitive – come nel caso del Fer X transitorio – si profilano prezzi che per il fotovoltaico potrebbero scendere sotto i 70 €/MWh, tant’è che alcuni operatori si pongono il problema di partecipare o meno a queste aste, che si configurano come una forma di stabilizzazione dei prezzi nel tempo, ma che rischiano di essere troppo bassi.

Nella realtà, quando andiamo a fare i conti, vediamo che il prezzo dell’elettricità generata da fonti rinnovabili è inferiore a quello che si otterrebbe producendola a partire dal carbone o dal gas. Il problema, semmai, è che oggi i costi per realizzare un nuovo impianto rinnovabile in Italia sono tenuti artificialmente alti a causa dei tempi lunghissimi per il permitting: il percorso autorizzativo dura 5-7 anni, speravamo i tempi potessero accorciarsi grazie alla Valutazione d’Impatto Ambientale (Via) nazionale, ma questo non è successo a causa dell’inadeguato numero di Commissari di cui è stata dotata la Commissione PNRR-PNIEC, col paradosso che oggi alcuni operatori cercano di parametrare i progetti su taglie più piccole, che permettano di non passare dalla valutazione della Commissione nazionale. Un altro importante fattore di costo arriva dall’aver limitato in modo del tutto artificiale le aree idonee agli impianti, attraverso una legge (il decreto Aree idonee del 2024, recentemente bocciato dal Tar Lazio e ora in fase di riscrittura, ndr) che ha ridotto anziché ampliare le aree idonee già individuate dal D.lgs. n. 199/2021. Anche l’impossibilità di realizzare nuovi impianti fotovoltaici a terra, come previsto dal decreto Agricoltura, va in questa direzione. È chiaro che si vuole tenere un freno a mano sulla crescita delle rinnovabili».

Eppure l’Agenzia europea dell’ambiente (Eea) ha appena pubblicato un report che documenta come raggiungere gli obiettivi 2030 sulle rinnovabili significhi, per l’Italia, poter tagliare di due terzi il costo all’ingrosso dell’elettricità rispetto al 2023. È un trend in corso, tant’è che nei momenti di maggior produzione il Pun arriva già a zero o quasi. Perché questi benefici faticano a emergere anche in bolletta?

«Non c’è dubbio che il trend sia in corso, man mano che produciamo più energia con le rinnovabili il prezzo è destinato a scendere. Ma si tratta di un tema molto complesso, anche perché il costo dell’elettricità non si determina solo col PUN e l’energia consumata non è solo quella scambiata in Borsa: ad esempio noi in Asja vendiamo l’energia con contratti a lungo termine, ad un prezzo definito per più anni, e credo sia questa la strada da percorrere.

Per chi investe in un impianto rinnovabile, remunerarlo attraverso un contratto a lungo termine è l’ideale perché si tratta di coprire essenzialmente il costo dell’investimento inziale e della manutenzione, non anche del carburante come nel caso di centrali termoelettriche a ciclo combinato, dove ben oltre il 60% dei costi è determinato dall’approvvigionamento di metano fossile. Allo stesso tempo, non possiamo pensare che sia possibile comprare l’energia elettrica a costo zero – o addirittura negativo – in modo strutturale: quando nel mix energetico sarà il fotovoltaico a diventare prevalente con un picco di produzione concentrato nelle quattro ore centrali della giornata, quell’energia non potrà essere sprecata o comprata a zero. Per questo è essenziale introdurre nella rete elettrica i sistemi di accumulo dell’energia i per assorbire i picchi di produzione, tipicamente generati dal fotovoltaico nelle ore più soleggiate, e rilasciarla nelle ore serali o notturne in cui il fotovoltaico non produce. A mio avviso i sistemi d’accumulo prevalenti saranno i Bess, perché la costante discesa nei prezzi delle batterie li renderà sempre più competitivi rispetto ai pompaggi idroelettrici».

Per lei il meccanismo del prezzo marginale è qui per restare, si va verso un predominio di contratti Ppa/Cfd rispetto ai volumi scambiati a breve termine, oppure ancora verso una soluzione con un mercato dell’elettricità dedicato alle tecnologie convenzionali – quelle che utilizzano gas ad esempio – e un mercato per le tecnologie rinnovabili?

«Credo che dovremmo lavorare per un mercato dove lo scenario prevalente sia concentrato sui contratti a lungo termine a prezzo fisso, come i Ppa o anche i Cfd, perché altrimenti diventa molto complicato realizzare i necessari investimenti in nuovi impianti rinnovabili come anche nel repowering dei vecchi; in questo modo si potrebbero anticipare i benefici per i cittadini in termini di minor costo dell’energia elettrica. Anche la stipula di Ppa da parte dell’amministrazione pubblica nelle sue varie articolazioni, a partire da Comuni, porterebbe vantaggi economici con ricadute concrete sui cittadini. Si tratta dunque di arrivare a un quadro di prevalenza dei contratti a lungo termine, affiancato a un mercato tradizionale come quello attuale, dove il costo dell’elettricità resterà fissato dal meccanismo del prezzo marginale».

C’è chi afferma che il contesto attuale, dominato dal prezzo marginale, porti in realtà vantaggi indebiti sotto forma di extraprofitti ai produttori rinnovabili, che si avvantaggerebbero degli alti prezzi del gas.

«I produttori di energia rinnovabile preferiscono poter contare su contratti a lungo termine, che garantiscano un ritorno di mercato accettabile all’investimento. È vero che nelle fasi di picco della crisi energetica che abbiamo avuto anni fa a causa della shortage del gas, quei produttori che non erano legati a Ppa si sono trovati in una situazione di vantaggio, ma ricordo che gli stessi, durante gli anni del Covid, hanno venduto l’elettricità al minor prezzo di sempre dal dopoguerra e nessuno si è preoccupato delle perdite. Non mi sembra dunque che ci siano situazioni di privilegio per le rinnovabili, anche perché se guardiamo al mercato vediamo che è pieno di aziende di settore che falliscono, sia sul fronte della generazione sia su quello della distribuzione, dunque si tratta di un mercato come tutti gli altri, con pressioni e concorrenza molto forti».

In Regioni come l’Umbria si ipotizza di mettere l’energia idroelettrica prodotta localmente a disposizione delle imprese energivore locali, a prezzi scontati; al contempo si proponedi legare il rinnovo delle concessioni idroelettriche – ma anche i revamping degli altri impianti rinnovabili che oggi godono d’incentivi – a contratti Cfd come se si trattasse di nuovi contingenti messi all’asta dal Gse: cosa ne pensa?

«Nello schema legislativo italiano le concessioni idroelettriche sono un diritto delle Regioni, che hanno il diritto di metterle a gara, una volta scadute. Chi vince la gara è tenuto a pagare un canone, che può essere fisso o in percentuale dell’elettricità prodotta; arrivare a soluzioni diverse da quelle previste dalla legislazione sulle gare è quello di cui si discute attualmente, sono strade difficili. Spetta dunque alle Regioni decidere cosa farne del canone: possono massimizzare l’introito della concessione per poi destinarlo agli ospedali, alla prevenzione idrogeologica, alle strade, alle scuole – in base a ciò che l’amministrazione democraticamente eletta ritiene prioritario. Nei limiti stabiliti dalla legge e dalle norme sugli aiuti di Stato, può anche decidere di sostenere attività industriali ritenute strategiche.

Ciò premesso, credo che sulle concessioni idroelettriche un punto molto importante da tenere in considerazione sia la reciprocità rispetto agli altri Stati europei. Dovremmo comunque evitare che l’Italia metta a gara l’utilizzo delle centrali idroelettriche, permettendo ad aziende straniere di partecipare, ad esempio ad aziende di Paesi come Austria o Francia che hanno esteso a oltre 50 anni le concessioni o in alcuni casi hanno concesso l’uso per un periodo indefinito.

Un primo aspetto da considerare è dunque quello del mantenimento di un controllo nazionale sulle concessioni italiane, anche attraverso strumenti di golden power, dato che si parla di un’energia rinnovabile strategica.

Se a gara si deve andare, un'intelligente via la offre la procedura del project financing, in cui i gestori delle centrali idroelettriche con le concessioni in scadenza possono fare una proposta economica alla Regione per il rinnovo della concessione, proposta che dalla Regione verrà messa a gara per verificare se vi sono migliori offerenti».

Tornando alla relazione annuale Arera, l’Authority documenta che per i clienti domestici i costi dell’elettricità dipendono per il 55% dalla componente energia, per il 17% dai costi di rete, per il 27% da oneri, imposte e tasse, e quest’ultima voce è cresciuta del 28% nell’ultimo anno. Potremmo intervenire spostando alcuni di questi oneri sulla fiscalità generale, dunque in senso progressivo, come suggerisce Besseghini?

«Quando la coperta è corta, non è mai facile scegliere. A causa di evasione ed elusione la fiscalità generale sconta già difficoltà a far quadrare il bilancio dello Stato, in un Paese come il nostro dove i contribuenti che dichiarano redditi per oltre 100mila euro l’anno sono appena mezzo milione. Credo che dovremmo avere la lucidità di andare avanti con le rinnovabili, che sono in grado di renderci energeticamente più indipendenti, e di fare i necessari investimenti in batterie, risparmiando così enormi risorse dall’importazione di combustibili fossili, riducendo al contempo i costi e le emissioni di CO2 coi relativi danni da eventi climatici estremi. Portare avanti la decarbonizzazione soddisfacendo il prima possibile l’80% della domanda elettrica da rinnovabili (oggi siamo al 41,2%, ndr) per poi puntare al 100% è la strada per abbassare in modo strutturale i prezzi dell’energia, se al contempo non rendiamo inutilmente costoso il fotovoltaico a terra attraverso i divieti e non impediamo di realizzare gli impianti limitando artificialmente le aree idonee».

Luca Aterini

Luca Aterini, toscano, nasce settimino il 1 dicembre 1988. Non ha particolari talenti ma, come Einstein, si dichiara solo appassionatamente curioso: nel suo caso non è una battuta di spirito. Nell’infanzia non disegna, ma scarabocchia su fogli bianchi un’infinità di mappe del tesoro; fonda il Club della Natura, e prosegue il suo impegno studiando Scienze per la pace. Scrive da sempre e dal 2010 per greenreport, di cui è oggi caporedattore.