Bce, la spesa Ue in difesa verso il 3% al 2027. L’impatto sul Pil? Si ferma allo 0,4-0,6%
Nel nuovo bollettino economico della Banca centrale europea, pubblicato oggi, vengono presi in esame gli aspetti di bilancio della spesa europea per la difesa: dagli effetti sulle proiezioni macroeconomiche per l’area dell’euro ai relativi rischi. Si tratta di una prima valutazione della Bce dopo che lo scorso giugno, a L’Aja, nel vertice Nato guidato dal Segretario generale Mark Rutte gli Stati membri – tra cui l’Italia guidata da Giorgia Meloni – hanno siglato un nuovo Defence investment plan per portare entro il 2035 la spesa per la difesa al 5% dei Pil nazionali, di cui il 3,5% alla difesa di base (in aumento rispetto al precedente indirizzo del 2%) e l’1,5% alla spesa per la difesa e la sicurezza.
Per la maggior parte dei paesi dell’Ue il nuovo obiettivo «implica un aumento notevole della spesa per la difesa», nota la Bce, in quanto nel 2024 la spesa per la difesa a livello dell’Ue era pari al 2% del Pil, mentre per l’aggregato dell’area dell’euro si collocava all’1,9% (mentre l’Italia è tra i Paesi col livello di spesa più basso, pari ad oggi all’1,57% del Pil).
Sulla base delle aspettative degli esperti dell’Eurosistema in merito all’esito del vertice Nato tenutosi a giugno, gli scenari di rischio della Bce ipotizzano un aumento graduale della spesa (orientato verso gli investimenti pubblici) fino al 3% del Pil a livello aggregato dell’area dell’euro entro il 2027. Con quali effetti sulla crescita economica?
Gli scenari producono effetti sulla crescita del Pil «fino a 0,4-0,6 punti percentuali al di sopra dello scenario di base nel 2027», nonché effetti sulla crescita dell’inflazione lievemente di «circa 0,1 punti percentuali nel 2027». Tali effetti, spiega la Bce, possono essere considerati come limiti superiori per il biennio 2025-2027, in quanto «gli scenari prevedono che la spesa aggiuntiva per la difesa sia interamente finanziata mediante ricorso al debito».
Oltre all’incertezza sull’effettivo incremento graduale delle capacità di difesa e sulla relativa spesa di bilancio (entità, composizione e tempistica delle misure), secondo la Banca centrale europea sussistono anche notevoli margini di incertezza di stima riguardo ai moltiplicatori fiscali della spesa per la difesa, per i quali le prove empiriche sono contrastanti: la letteratura empirica sui moltiplicatori fiscali suggerisce che la spesa militare può avere effetti favorevoli sulla domanda nel breve periodo, ma, ad eccezione della spesa per ricerca e sviluppo, nel lungo periodo gli effetti sulla crescita tendono a essere modesti. Tuttavia, le stime sui moltiplicatori fiscali variano significativamente e dipendono probabilmente dallo stato, dalla metodologia e dal campione. Tra la letteratura recente, Ilzetzki (2025) concorda sul fatto che l’aumento della spesa per la difesa comporti un effettivo aumento del Pil, ma il grado di questa espansione e il potenziale spiazzamento del settore privato rimangono incerti.
«Infine, l’analisi dei rischi – conclude la Bce – non tiene conto delle tensioni che si potrebbero verificare nei mercati finanziari qualora il rapporto fra debito pubblico e Pil non sia orientato su un percorso discendente nel medio periodo, in particolare nei paesi dell’area dell’euro (come l’Italia, ndr) con un debito elevato e in caso di andamenti macroeconomici più sfavorevoli».
Ciò non toglie la necessità di migliorare e anche incrementare la spesa in difesa a fronte della minaccia costituita dalla Russia di Putin, contestualmente al crescente disimpegno statunitense promosso dalle politiche del presidente Trump, ma una maggiore autonomia strategica dell’Ue su questo fronte che passi dai riarmi nazionali degli Stati membri è giocoforza inefficiente: servirebbe in primo luogo coordinare meglio gli attuali investimenti tra Stati membri Ue e le relative forze armate.
L’Osservatorio italiano sui conti pubblici si è portato avanti, mostrando che la spesa militare europea è già ampiamente superiore a quella russa: del 19% se limitiamo il perimetro d’analisi ai soli Stati membri dell’Ue, del 56% contano anche gli altri membri Nato in Europa (aggiungendo dunque, in particolare, Regno Unito, Norvegia e Turchia).
«Tuttavia – evidenzia nel merito l’Osservatorio – è prioritario risolvere almeno due problemi che riducono l’efficienza della spesa militare nell’Ue. Il primo è l’inadeguato coordinamento tra le forze armate dei 27 Paesi membri. Il secondo è che, in gran parte dei Paesi Ue, la spesa militare è sbilanciata verso quella per il personale rispetto agli investimenti in armamenti e le spese di esercizio».