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Reporter senza frontiere: 67 giornalisti uccisi in un anno, quasi la metà a Gaza

L’ultimo report dell’ong che si batte per la libertà d’informazione accende un faro sul fatto che molti sono vittime di «pratiche criminali di forze armate regolari», oltre che di gruppi paramilitari e della criminalità organizzata
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Il dato è di per sé scioccante: in un anno sono stati uccisi 67 giornalisti mentre stavano compiendo il proprio lavoro. E i due dettagli che seguono a questa cifra sono altrettanto sconvolgenti. Il primo: quasi la metà delle vittime erano reporter impegnati a raccontare al resto del mondo quel che stava avvenendo a Gaza. Il secondo dettaglio: il numero delle uccisioni non solo è in aumento rispetto al passato, ma il numero dei giornalisti uccisi è tornato a crescere a causa delle pratiche criminali delle forze armate regolari, oltre che della criminalità organizzata.

Tutto ciò si legge nell’ultimo rapporto realizzato e diffuso da Reporter senza frontiere, che è relativo al periodo di tempo compreso tra il 1° dicembre 2024 e il 1° dicembre 2025. Secondo quanto riportato dall’Ong internazionale che si batte per la libertà d’informazione, in questi 12 mesi è nuovamente aumentato «a causa delle pratiche criminali dei gruppi militari, sia regolari che paramilitari, e della criminalità organizzata» e «almeno 53 dei 67 professionisti dei media uccisi nell’ultimo anno sono vittime della guerra o delle reti criminali» (almeno il 79% è stato vittima delle forze armate o di gruppi paramilitari - 37 giornalisti - e di reti criminali - 16 giornalisti).   

Nel dettaglio, il report di Reporter senza frontiere evidenzia che il 43% dei giornalisti uccisi negli ultimi 12 mesi sono stati colpiti a morte dalle forze armate israeliane mentre si trovavano a Gaza. Ma non è questo l’unico teatro degli orrori. In Ucraina, spiega l’Ong Rsf, l’esercito russo continua a prendere di mira i giornalisti stranieri e ucraini. E anche il Sudan è emerso come una zona di guerra particolarmente letale per i professionisti dell’informazione. Quest’anno è stato il più mortale degli ultimi tre anni almeno, e il Messico è il secondo Paese più pericoloso al mondo per i giornalisti, con nove uccisioni. La tendenza si è diffusa con la crescente “messicanizzazione” dell’America Latina, viene spiegato, che rappresenta il 24% dei giornalisti uccisi nel mondo.   

Dal report Rsf emerge poi una particolarità non di poco conto: i giornalisti sono più a rischio all’interno dei propri paesi: solo due reporter stranieri sono stati uccisi quest’anno in Paesi diversi da quelli della loro origine o residenza, ovvero il fotoreporter francese Antoni Lallican, ucciso da un attacco con droni russi in Ucraina, e il giornalista salvadoregno Javier Hércules, ucciso in Honduras, dove viveva da oltre un decennio. Tutti gli altri giornalisti assassinati riportavano notizie nei propri Paesi.     

Ma non ci sono solo i giornalisti che pagano con la vita per la loro professione. Nel report Rsf si legge che attualmente sono 503 i giornalisti detenuti in tutto il mondo: la Cina rimane il Paese con il maggior numero di giornalisti incarcerati (121), seguita dalla Russia (48), che detiene il secondo posto e imprigiona più giornalisti stranieri di qualsiasi altro Stato: 26 ucraini. Il Myanmar (47) è al terzo posto. A un anno dalla caduta del regime di Bashar al-Assad, molti dei giornalisti arrestati o catturati sotto il suo governo non sono ancora stati ritrovati, rendendo la Siria il Paese con il più alto numero di professionisti dell’informazione scomparsi, oltre un quarto del totale mondiale.

Spiega il direttore generale di Reporter senza frontiere, Thibaut Bruttin: «Ecco dove porta l'odio nei confronti dei giornalisti! Quest'anno ha causato la morte di 67 reporter, non per caso, e non si è trattato di vittime collaterali. Sono stati uccisi, presi di mira per il loro lavoro. È perfettamente legittimo criticare i media: la critica dovrebbe fungere da catalizzatore per un cambiamento che garantisca la sopravvivenza della stampa libera, un bene pubblico. Ma non deve mai degenerare in odio verso i giornalisti, che nasce in gran parte dalle tattiche delle forze armate e delle organizzazioni criminali o viene deliberatamente alimentato da esse. Ecco dove ci porta l'impunità per questi crimini: il fallimento delle organizzazioni internazionali che non sono più in grado di garantire il diritto dei giornalisti alla protezione nei conflitti armati è la conseguenza di un declino globale del coraggio dei governi, che dovrebbero attuare politiche pubbliche di protezione. Testimoni chiave della storia, i giornalisti sono diventati gradualmente vittime collaterali, testimoni oculari scomodi, merce di scambio, pedine nei giochi diplomatici, uomini e donne da “eliminare”. Dobbiamo diffidare delle false nozioni sui giornalisti: nessuno dà la vita per il giornalismo, ma viene loro tolta; i giornalisti non muoiono semplicemente, vengono uccisi».

C’è infine un ulteriore fenomeno con cui fare i conti, oltre alle uccisioni e agli arresti: quello delle sparizioni. Attualmente, 135 giornalisti risultano dispersi in 37 paesi. Alcuni di loro sono scomparsi da oltre 30 anni. Sebbene i professionisti dell'informazione scompaiano in tutto il mondo, il fenomeno raggiunge picchi particolarmente elevati in Messico (28) e Siria (37). Cifre a cui si aggiungono quelle relative ai giornalisti tenuti in ostaggio. Attualmente, si legge nel report Rsf, sono 20 in tutto il mondo. Nel 2025 i ribelli Houthi hanno preso in ostaggio sette giornalisti, rendendo lo Yemen il Paese con il maggior numero di giornalisti vittime di questo tipo di rapimenti negli ultimi dodici mesi. In Siria, molti giornalisti catturati prima della caduta di Bashar al-Assad nel dicembre 2024 sono ancora dispersi.

Redazione Greenreport

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