Trump continua a propagandare il suo «drill, baby, drill», mentre queste trivellazioni mettono a rischio la salute di decine di milioni di americani che vivono accanto alle infrastrutture per combustibili fossili
Donald Trump si è presentato alla campagna elettorale per la Casa Bianca promettendo di cancellare le leggi a tutela dell’ambiente, sventolando lo slogan «drill, baby, drill» lodando le opportunità offerte dalle trivellazioni e dallo sfruttamento delle fonti fossili, costantemente criticando il ricorso alle fonti di energia rinnovabile. Ora che è passato poco più di un anno dalle elezioni statunitensi, il tycoon ha mantenuto fede a quanto promesso: uno dei suoi primi atti è stato far uscire gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi; uno degli ultimi, poche settimane fa, è stato rifiutarsi di mandare una delegazione della Casa Bianca alla conferenza delle Nazioni Unite sul clima in corso a Belém, in Brasile. Tra le due decisioni ci sono una miriade di azioni a favore dell’industria di petrolio e gas e a danno di eolico e solare, di veicoli elettrici, di politiche di tutela della biodiversità e via elencando. Spesso, tra l’altro, piegando a proprio uso e consumo le leggi, come è successo ancora solo qualche giorno fa: il dipartimento degli Interni ha annunciato che non applicherà una legge fondamentale sulla protezione ambientale alle vendite di concessioni petrolifere e di gas offshore previste dalla legge di bilancio messa a punto dallo stesso Trump. Il motivo? Come racconta il Sierra club, che è tra le più antiche e autorevoli organizzazioni statunitensi che si occupano di tutela ambientale, un portavoce del dipartimento ha semplicemente affermato che il National Environmental Policy Act (Nepa) «non è applicabile» alle nuove vendite di concessioni offshore. L’amministrazione Trump ha anche fatto sapere che non intende applicare le valutazioni ambientali alle vendite di concessioni petrolifere e di gas onshore, il che richiederebbe un processo formale di abrogazione della norma.
Il Nepa è una legge fondamentale degli Stati Uniti, che risale al 1970 e che impone al governo federale di valutare l’impatto ambientale delle decisioni, comprese ovviamente quelle riguardanti le concessioni per le imprese di combustibili fossili. Ora, denuncia il Sierra club, la legge finanziaria di Trump prevede la vendita di 36 concessioni petrolifere e di gas offshore, 6 nell’insenatura di Cook in Alaska e 30 nel Golfo del Messico. Il Bureau of Ocean Energy Management ha annunciato che il 10 dicembre terrà la prima vendita offshore prevista per il Golfo. Tutte azioni condannate dall’associazione ambientalista, che per bocca del direttore del programma di protezione del territorio, Athan Manuel, ha detto: «Donald Trump non può scegliere quali leggi seguire e quali ignorare. Le valutazioni ambientali garantiscono la sicurezza delle comunità e proteggono il territorio e le acque dall’inquinamento. Una valutazione ambientale approfondita rivela i pericoli prima che si verifichino, mentre ignorare tali valutazioni li mantiene nascosti fino a quando non accade il peggio. Più volte l’amministrazione Trump ha dimostrato di essere disposta a mettere a rischio le persone se ciò aumenta i profitti delle aziende».
Il problema è che il presidente degli Stati Uniti sta già mettendo «a rischio le persone», continuando a puntare tutto sui combustibili fossili. Gli americani, innanzitutto, anche se non solo loro. Uno studio realizzato dai ricercatori della Boston University e pubblicato sulla rivista scientifica Environmental Research Letters stima che 46,6 milioni di persone negli Stati Uniti contigui (quelli cioè presenti nella parte continentale del Nord America ed esclusi dunque Alaska, Hawaii e territori d’oltremare) vivono entro circa un miglio (circa 1,6 chilometri) da almeno un’infrastruttura per combustibili fossili. Si tratta del 14,1% della popolazione statunitense, che è a rischio per il semplice fatto di risiedere in queste aree. Nello studio si sottolinea infatti che un crescente numero di ricerche conferma che le comunità che risiedono in prossimità di impianti di estrazione e di utilizzo finale di combustibili fossili corrono un rischio maggiore di esiti avversi alla nascita e di asma (e stanno emergendo ricerche su altri effetti sulla salute, tra cui la leucemia), mentre si sa molto meno sugli effetti sulla salute derivanti dal vivere in prossimità di infrastrutture intermedie della catena di approvvigionamento, anche se inquinanti nocivi come i composti organici volatili sono stati rilevati in prossimità di alcune di queste strutture.
«Questo studio ci aiuta a comprendere la portata generale del potenziale problema e dà il via a un processo che ci permetterà di comprendere meglio quali siano esattamente i pericoli e quante persone siano potenzialmente esposte», ha affermato Jonathan Buonocore, primo autore dell’articolo che illustra i risultati dello studio, professore associato di salute ambientale presso la School of Public Health della Boston Universtiy e docente presso l’Institute for Global Sustainability della medesima università. «Soprattutto per queste infrastrutture energetiche meno note, questo è il primo passo per tracciare le emissioni e i fattori di stress che queste impongono alle comunità».
Sono quasi 21 milioni gli americani che vivono vicino a strutture di utilizzo finale, mentre più di 20 milioni sono quelli che si trovano entro un miglio dai siti di estrazione, come pozzi di petrolio e gas. Le strutture di stoccaggio, gli impianti sotterranei del gas e i terminal di prodotti petroliferi, hanno oltre 6 milioni di residenti nelle vicinanze. Un numero inferiore di persone vive vicino a raffinerie e trasporti. Molti americani, circa 9 milioni, rientrano in più di uno di questi siti, poiché le loro case si trovano in prossimità di molteplici tipi di infrastrutture. «Ci sono motivi per credere che l’inquinamento atmosferico possa derivare da ciascuna di queste fasi, da inquinamento persistente, perdite di gas o esplosioni, quando gas o petrolio fuoriescono da un pozzo in modo incontrollato», ha affermato Mary Willis, autrice senior dello studio, professoressa associata di epidemiologia presso la School of Public Health della Boston Universtiy e docente principale presso l’Institute for Global Sustainability. «Tutte queste fasi possono ragionevolmente avere un impatto su una serie di esiti sulla salute della popolazione, ma le informazioni di base su chi si trova anche solo in prossimità delle componenti infrastrutturali non sono state ancora esaminate».
C’è inoltre un’ulteriore peculiarità, degna di denuncia, che viene sottolineata dallo studio: le infrastrutture di combustibili fossili non sono distribuite uniformemente sul territorio nazionale. I gruppi prevalentemente non bianchi sono esposti in modo sproporzionato in tutte le fasi della filiera energetica, un risultato in linea con ricerche precedenti e che indica una profonda ingiustizia non solo ambientale ma anche sociale.