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Ex Ilva, solidarietà delle associazioni ai lavoratori: «No al ricatto tra occupazione o ambiente e salute»

Greenpeace, Legambiente e Wwf hanno siglato una nota congiunta a sostegno dei dipendenti di Acciaierie d’Italia, con anche la richiesta al governo di cinque misure urgenti da mettere in campo. Intanto, dopo lo sciopero dei giorni scorsi, è previsto per domani un incontro a Roma che sta spaccando il fronte sindacale
 |  Green economy

Attorno all’ex Ilva di Taranto e al settore siderurgico italiano si sta giocando una partita in cui al momento c’è una sola certezza: a pagare il prezzo più salato, comunque vada, saranno i lavoratori che, come hanno denunciato i sindacati dopo un incontro a Palazzo Chigi e proclamando l’ultimo sciopero sono «usati per fare cassa».

Ma a denunciare il modo in cui il governo sta portando avanti questa partita non ci sono soltanto le sigle sindacali, a cui è stato comunicato l’avvio dal 1° gennaio di una cassa integrazione per 6000 dei 7.938 lavoratori. La galassia ambientalista denuncia da tempo il «ricatto tra “salvare i posti di lavoro” e “salvare l’ambiente e la salute”». Nelle scorse settimane Wwf, Legambiente e Greenpeace hanno chiesto al governo un piano industriale ed economico. Richiesta caduta nel vuoto. Ora le tre associazioni ribadiscono che la sola via praticabile per l’Ilva è una transizione pianificata e partecipata «che combini tutela sociale e sanitaria e trasformazione tecnologica»: «Senza un piano credibile di decarbonizzazione e senza investimenti strutturali si rischia sia la perdita di posti di lavoro sia un aggravarsi dell’impatto ambientale e sanitario sul territorio. Dopo anni di sacrifici enormi sopportati dalla popolazione delle città coinvolte, al danno si aggiungerebbe la beffa del deserto occupazionale e della fuga dalle responsabilità imprenditoriali. E ciò non è accettabile».

Parole che Greenpeace Italia, Legambiente e Wwf Italia hanno messo nero su bianco in una nota in cui esprimono solidarietà e vicinanza a tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori del gruppo Acciaierie d’Italia, ai loro familiari e all’indotto che vive un momento di profonda incertezza. «Siamo dalla loro parte: la tutela dell’occupazione e il rispetto della dignità delle persone devono essere elementi vincolanti in qualunque processo decisionale che riguardi il futuro degli stabilimenti, alla pari della salvaguardia della salute e della necessità di abbattere le emissioni inquinanti e climalteranti». Si legge nel testo diffuso dalle tre associazioni ambientaliste: «Va scongiurato il rischio ambientale e sanitario che una gestione emergenziale o una chiusura non programmata del ciclo produttivo comportano, specie se attuate in assenza di un piano strutturato di bonifica e di riconversione: ci sarebbero gravi rischi di danno ambientale duraturo per il territorio e per la salute delle comunità locali».

Caduta nel vuoto la richiesta di dieci giorni fa al governo di un piano di transizione degli stabilimenti del gruppo basato su governance chiara, tempi e finanziamenti certi e obiettivi misurabili per la decarbonizzazione e per la messa in sicurezza delle aree, ora le associazioni ribadiscono la necessità di mettere sul piatto una serie di iniziative urgenti. «Oggi – scrivono – considerato il piano presentato dal Governo ai sindacati in cui l’unica certezza sono le migliaia di lavoratori che saranno messi in cassa integrazione, senza alcuna garanzia sulle prospettive industriali di decarbonizzazione, rilanciamo con cinque richieste immediate». Queste:

«1. Istituzione di un Tavolo nazionale vincolante Governo-Regioni-Sindacati-Comuni-Imprese-Società civile per definire: a) un meccanismo di governance multi-stakeholder dei processi che preveda un coinvolgimento attivo delle comunità locali nelle decisioni che riguardano il futuro del territorio; b) le garanzie occupazionali (piani di reindustrializzazione e politiche attive del lavoro);

2. Creazione di un nuovo soggetto imprenditoriale controllato dallo Stato, come unico soggetto capace di garantire una effettiva decarbonizzazione, la diversificazione produttiva, le bonifiche e la tutela occupazionale;

3. Definizione di un Piano di decarbonizzazione credibile e con finanziamenti certi che preveda la realizzazione entro il 2030 di nuovi forni elettrici per la produzione di acciaio, con la contemporanea progressiva dismissione di altoforni e cokerie, e di un impianto per la produzione di ferro preridotto (DRI), escludendo qualsiasi ricorso a impianti di rigassificazione;

4. Accelerare gli investimenti sulle filiere industriali delle fonti rinnovabili e dell’idrogeno verde per ridurre al minimo gli impatti su clima, ambiente e, soprattutto, sulla salute dei lavoratori e delle lavoratrici, dei cittadini e delle cittadine che vivono vicino agli stabilimenti oltre a creare posti di lavoro aggiuntivi per far fronte alla minore intensità di manodopera dei processi elettrificati;

5. Utilizzo immediato dei fondi nazionali e comunitari di scopo e coinvolgimento delle istituzioni europee e delle banche di sviluppo per mettere insieme una piattaforma mista di finanziamento (sovvenzioni, prestiti agevolati, garanzie) che consenta una transizione industriale sostenibile, senza ricadute sociali drammatiche e in linea con gli obiettivi del Piano nazionale integrato energia Clima (Pniec)».

Dal fronte governativo ancora tutto tace. Per domani è previsto un incontro a Roma che sta spaccando il fronte sindacale: al vertice convocato dal ministro delle Imprese Adolfo Urso, ci saranno solo Fim Cisl e Usb, ma non Fiom Cgil e Uilm, che in una nota congiunta hanno scritto che «il Governo Meloni procede con il piano presentato l’11 novembre», quello appunto accusato di «far cassa sulla pelle dei lavoratori», e che dunque se non verrà ritirato ogni nuovo incontro è inutile. Intanto, la data del 1° gennaio e della cassa integrazione per 6000 si avvicina.

Redazione Greenreport

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