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Intervista a Jacopo Custodi

Per riportare le classi popolari a sinistra serve un nuovo linguaggio, anche sull’ambiente

«Se la sinistra tornasse a rappresentare i lavoratori sul piano socioeconomico, si ridurrebbe la capacità della destra di insinuarsi nel mondo del lavoro»
 |  Interviste

 Nonostante persegua tutt’altri interessi sotto il profilo socioeconomico, oggi l’ascendente dell’estrema destra sulle classi popolari – che si tratti di Donald Trump, Giorgia Meloni o Alice Weidel – è paradossalmente molto ampio, a discapito dei partiti progressisti. Si tratta di un assetto politico che frena avanzamenti sul fronte della sostenibilità sociale quanto il sostegno popolare a politiche di transizione ecologica, due temi che peraltro s’incrociano inevitabilmente: basti osservare che il sistema fiscale italiano è regressivo (in barba all’articolo 53 della Costituzione), mentre se fosse applicata una patrimoniale anche solo all’1% più ricco – cioè a chi possiede almeno 1,7 milioni di euro di patrimonio – si otterrebbe un gettito addizionale di circa 30 miliardi di euro, per finanziare il green deal e migliorare la coesione sociale. Come se ne esce? Ne abbiamo parlato con Jacopo Custodi, ricercatore in scienze politiche presso la Scuola Normale Superiore e docente di politica comparata alla sede italiana della Georgetown University.

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Intervista

La globalizzazione sta portando all’ascesa dei Paesi asiatici – cui si aggiungeranno sempre più quelli africani – come nuovo centro di potere del XXI secolo, a discapito di un Occidente dove la destra usa la retorica del nazionalismo come uno strumento identitario per resistere al cambiamento. Secondo lei anche la sinistra non deve rinunciare al patriottismo: in che modo? 

«Prima di tutto, dobbiamo riconoscere che il nazionalismo è in crescita in molte aree del mondo, non solo in Occidente e non solo tra i partiti di destra. Studi recenti, ad esempio, mostrano come il Partito comunista cinese faccia sempre più leva sull’identità nazionale per rafforzare il consenso politico. Questo ci ricorda due cose: il nazionalismo non è scomparso con la globalizzazione e non è un fenomeno monolitico. Può assumere forme e intensità differenti, e soprattutto può intrecciarsi con ideologie molto diverse tra loro. Inoltre, osserviamo che in vari Paesi le classi popolari tendono a essere quelle culturalmente più “nazionalizzate”, e a identificarsi con la comunità nazionale più di altri gruppi sociali. Questo pone delle sfide importanti alla sinistra, di cui ho provato a parlare nel libro “Un’idea di Paese: la nazione nel pensiero di sinistra”. Il libro ripercorre il travagliato rapporto fra la sinistra e l’idea di nazione, e prova a suggerire qualche indicazione strategica per il presente.

In estrema sintesi: se la sinistra lascia alla destra il privilegio di appropriarsi dei simboli nazionali, e di decidere cosa vuol dire “essere italiani”, allora per la destra sarà ancora più facile costruire indisturbata un’idea di comunità nazionale chiusa, etnica e monoculturale. Un’identità italiana escludente, per cui i migranti e le minoranze ne pagano ogni giorno le conseguenze, etichettati come non membri della comunità. Non è facile, ma la sinistra dovrebbe cercare di contrastare la destra anche sul terreno dell’identificazione col Paese. Inoltre, molti partiti di sinistra sembrano aver perso quel linguaggio “nazionale-popolare” – per riprendere il celebre concetto gramsciano – che li contraddistingueva nel passato, e questo influisce negativamente sulla loro capacità di parlare alle classi popolari. Per questo è cruciale che la sinistra elabori una propria idea di Paese, capace di essere al tempo stesso nazionale e inclusiva, popolare e coerente con i suoi valori».

Un nuovo rapporto pubblicato dal Center for working class politics (Cwcp) e dalla rivista Jacobin analizza le opinioni sui temi socio-culturali della working class statunitense – individuata nei due terzi inferiori della distribuzione del reddito e in assenza di una laurea quadriennale, una classe sociale che ha avuto un ruolo centrale nell’elezione di Trump – nel periodo 1960-2022. Cosa emerge sui temi ambientali, e quali indicazioni possiamo trarne per coinvolgere le classi popolari nella transizione ecologica? 

«Lo studio di cui parli è estremamente interessante, e avremmo bisogno di analisi simili anche in Italia: se vogliamo una sinistra e un ambientalismo capaci di raccogliere consenso tra le classi popolari, è fondamentale iniziare ad ascoltare quello che pensano. Nello specifico delle questioni ambientali, lo studio mostra come i lavoratori americani siano effettivamente meno progressisti della classe media su alcuni temi, ma questo non vuol dire che siano conservatori. Al contrario, nella maggior parte dei casi esprimono atteggiamenti complessivamente progressisti e, nonostante la crescita della destra negazionista, non si registra uno spostamento a destra generalizzato delle loro opinioni sul cambiamento climatico e le politiche ambientali.

Un altro punto cruciale riguarda il modo in cui i temi ambientali vengono comunicati. Studi precedenti, più qualitativi, condotti sempre da Jacobin e dal Center for Working Class Politics, hanno messo in evidenza che per trasmettere con successo un messaggio politico alle classi lavoratrici non conta solo il contenuto, ma anche il linguaggio utilizzato e chi lo veicola. In sintesi: più la persona che parla e il linguaggio che usa appaiono lontani dalla classe lavoratrice, più il messaggio sarà recepito con freddezza. E questo a prescindere da una condivisione valoriale o meno col contenuto del messaggio». 

working class ambiente

Il declino dell’Occidente si concentra nella classe lavoratrice e nel ceto medio – anche in Italia, dove i salari reali sono in calo dal 1990 e in modo particolarmente marcato dal 2008 – mentre aumentano le disuguaglianze a favore dei super-ricchi, che sono i maggiori responsabili della crisi climatica in corso. Come i fascismi del secolo scorso, oggi i partiti di estrema destra difendono l’élite ma si presentano come forze politiche anti-sistema sfruttando il comprensibile risentimento dei più poveri. Come se ne esce? 

«Non è facile, ma iniziare a parlarne apertamente mi sembra un passo necessario per cercare insieme una soluzione. Partiamo dal dire che in realtà la maggior parte del voto delle classi popolari non va né a destra né a sinistra, ma nell’astensione. Alle ultime elezioni europee in Italia, tre persone su quattro a basso reddito non hanno votato. Resta vero, però, che in molti Paesi occidentali, tra cui l’Italia, la destra riesce comunque meglio della sinistra a raccogliere voti tra le classi popolari e a costruire un’identificazione con esse.

L’identificazione che costruiscono è però tutta in termini culturali, e questo mi sembra un punto chiave da tenere presente: la destra crea identificazione sul terreno delle preferenze culturali e valoriali, non su quello delle condizioni materiali di vita. E questo è completamente diverso da quello che faceva la sinistra, che storicamente ha definito e rappresentato la classe operaia in base alla sua posizione nei rapporti di produzione, sul piano economico e del lavoro, non su quello culturale. Il problema è che la sinistra ha da tempo smesso di svolgere questa funzione e ciò ha probabilmente favorito la destra, facilitandone il tentativo di costruire nuove forme di identificazione con le classi popolari abbandonate. Forse, se la sinistra tornasse a rappresentare i lavoratori sul piano socioeconomico, si ridurrebbe la capacità della destra di insinuarsi nel mondo del lavoro». 

Crede ci sia ancora spazio nella società italiana ed europea per un modello socioeconomico alternativo, come quello proposto da Enrico Berlinguer nell’ormai lontano 1977 dal Discorso dell’Eliseo, dove l’austerità è una scelta consapevole volta a ridurre sprechi e consumi privati lussuosi per destinare più risorse a servizi pubblici e giustizia sociale? 

«Sono fermamente convinto che oggi ci sia molto più bisogno di un modello socioeconomico alternativo di quanto non ce ne fosse nel 1977. Non voglio idealizzare il secondo Novecento, ma dobbiamo riconoscere che erano anni in cui i rapporti di forza nella società erano diversi: il movimento operaio era forte, le disuguaglianze si riducevano, l’economia cresceva, i diritti si rafforzavano e la partecipazione politica era diffusa. Oggi, al contrario, viviamo un declino che dura da almeno vent’anni: i rapporti di forza sono sbilanciati in modo estremo a favore del capitale, lo stato sociale arretra, la democrazia appare sempre più fragile, e le disuguaglianze aumentano a ritmi vertiginosi. A tutto questo si aggiunge l’enorme sfida del cambiamento climatico, rispetto alla quale le leadership occidentali stanno facendo criminalmente troppo poco, spesso impotenti o conniventi di fronte ai profitti climalteranti delle grandi aziende e degli ultraricchi. La concentrazione delle risorse e della ricchezza, sottraendole al resto della società, ha raggiunto un livello senza precedenti nella storia umana. È una sciagura, ingiusta moralmente, inefficiente per lo sviluppo economico e corresponsabile del riscaldamento globale. Abbiamo bisogno di una politica economica che riduca sprechi, privilegi e disuguaglianze e che sia compatibile con i limiti del pianeta».

 

Luca Aterini

Luca Aterini, toscano, nasce settimino il 1 dicembre 1988. Non ha particolari talenti ma, come Einstein, si dichiara solo appassionatamente curioso: nel suo caso non è una battuta di spirito. Nell’infanzia non disegna, ma scarabocchia su fogli bianchi un’infinità di mappe del tesoro; fonda il Club della Natura, e prosegue il suo impegno studiando Scienze per la pace. Scrive da sempre e dal 2010 per greenreport, di cui è oggi caporedattore.