
Il futuro del lupo in Italia, se ne discute a due anni dalla Carta di Sulmona

Pubblichiamo il documento finale del progetto Life Wolfnet, che ha individuato le direttrici gestionali ritenute prioritarie per la conservazione del lupo nell’Appennino, che viene discusso oggi a Badia Morronese – Sulmona, nel un meeting nazionale “Dall’Appennino alle Alpi, le buone pratiche per il futuro del lupo in Italia”, organizzato da Legambiente e dal parco della Majella in collaborazione con Federparchi, che intende fare il punto della situazione, tracciare gli scenari futuri e definire le questioni da affrontare, a partire dalle principali criticità legate alla convivenza con le attività umane, per continuare a garantire la conservazione del lupo su tutto il territorio italiano.
Sebbene si tratti un evidente successo dal punto di vista della conservazione, le polemiche che sono sorte attorno al tema delle predazioni e del mancato o insufficiente risarcimento del danno, hanno creato un clima negativo attorno alla specie faunistica che, in assoluto, attrae le maggiori attenzioni dell’uomo sia in positivo che in negativo. Attenzioni eccessive, che sono sfociate anche in vere e proprie persecuzioni, le abbiamo potute registrare soprattutto in quei territori di nuova colonizzazione del lupo, e in quelli dove sembrava essere scomparso e che invece, grazie alla sua grande capacità di adattamento e resilienza è tornato a frequentare, incontrando però, anche per questo, popolazioni non più abituate alla sua presenza e quindi ad una corretta modalità di convivenza con esso, il lupo è protagonista oggi anche di un ampio dibattito.
E’ delle ultime settimane, invece, la forte polemica scaturita dalla presentazione della bozza del nuovo Piano d’Azione Nazionale sulla Conservazione e Gestione, a diversi anni dal precedente (anno 2002), intrapreso dalla Direzione Protezione Natura e del Mare del Ministero dell’Ambiente e la cui redazione è stata affidata all’Unione zoologica italiana.
Una revisione necessitata, è bene ribadirlo, dal successo delle politiche di conservazione della specie e dalle nuove conoscenze scientifiche acquisite in questi anni grazie al lavoro del mondo della ricerca, delle associazioni e del sistema delle aree protette.
Sulla bozza di Piano presentato, da molte parti ci sono state chiare prese di posizione contrarie alla scelta di derogare al vigente divieto di rimuovere un numero massimo di 60 lupi, sebbene questo limite venga calcolato dagli esperti entro una soglia di sicurezza rispetto all’impatto sulla popolazione oggi presente in Italia. Una possibilità di deroga che, in teoria, era ed è già possibile in quanto prevista nella direttiva habitat (92/43), e che il Ministero in tutti questi anni non ha mai esercitato poiché, com’è noto al Ministero, questa specie non è ancora fuori pericolo. Anzi, in alcune aree del nostro Paese è ancora a rischio.
La rimozione invece derogata quale previsione di Piano invece non appare giustificabile poiché la soluzione proposta innesca un meccanismo tale da interrompere le buone pratiche di mitigazione dei danni e dei conflitti, come sappiamo molto onerose e faticose, sebbene di successo, cedendo invece in favore di “più semplici” azioni solo capaci di più clamore mediatico e ricadute negative in termini culturali, ma non in termini di efficacia concreta.
Con questa scelta, infine, sebbene dichiarata come estrema ratio si rischia di mettere in dubbio anni di buone pratiche e di impegno sul tema della prevenzione del conflitto, di cui le aree protette sono state esempio a livello europeo, di condivisione con i portatori di interesse come gli allevatori, e nel contrasto concreto al bracconaggio.
Da non dimenticare che nel nostro Paese esiste, nei fatti, una “autolimitazione al prelievo del lupo” già garantita, purtroppo, dal bracconaggio che rappresentata la causa principale di rischio a cui è sottoposto il lupo, insieme all’ibridazione con i cani vaganti.
I dati infatti che siamo riusciti a mettere insieme nel triennio 2013-15 in Italia, parlano del ritrovamento di 114 lupi morti per cause non naturali, più del 40% dei quali uccisi con armi da fuoco (23,7%), avvelenato (10,5%) o torturato con i lacci (6 %). Il restante 45,6% dei decessi è per investimento stradale, una causa comunque imputabile alle attività dell’uomo, il 13,2 per motivi incerti e meno dell’1% per aggressione da parte di altri canidi. Se si escludono quindi quelle accidentali come gli investimenti stradali, le cause di decesso dei lupi sono riconducibili ad azioni illegali, reati punibili per legge. Infine, segnaliamo che nei solo primi 3 mesi del 2016 sono stati ritrovati 16 lupi morti in tutta Italia (in tutto il 2015 erano stati 19), ed in soli 3 giorni in Piemonte sono stati ritrovati 3 lupi in 3 diverse località tra il torinese e il cuneese. Tutti esemplari investiti, in una regione che si sta rivelando la più pericolosa per il predatore che attraversa le sue strade. L’investimento è stato nel 2016 la causa della metà dei decessi (8 su 16). Per gli altri 8 le cause sono state: bracconaggio (5), avvelenamento (2) e una causa incerta.
E il gruppo di esperti che ha redatto il nuovo Piano indica tra il 15% e il 20% il numero di lupi uccisi dall’uomo annualmente, ossia tra i 214 (ipotesi di 1070 lupi) e i 494 lupi (ipotesi di 2472 lupi), con scarsissimi casi di indagini di polizia che hanno portato ad individuarne i colpevoli e, tutt’altro che secondario, senza alcuna riduzione dei conflitti locali.
Appare evidente quindi che il tema numero uno da porre al centro sia proprio quello della prevenzione del conflitto, quindi condivisone di scelte e strategie con i portatori di interesse come gli allevatori, contrastando però contemporaneamente in maniera concreta, efficace e senza sconti la piaga del bracconaggio, causa principale di rischio cui è sottoposto il lupo, insieme all’ibridazione con i cani vaganti. Del resto, queste criticità su cui occorre intervenire sono state già individuate dalla Carta di Sulmona, il documento finale scaturito dal progetto Life Wolfnet che ha rappresentato un ottimo esempio di sinergia e collaborazione tra parchi sulla gestione delle problematiche emergenti nell’interfaccia lupo-uomo. E tra queste, vanno citate in aggiunta anche le criticità sanitarie cui è sottoposta la specie, il disturbo diretto ed indiretto al lupo nei siti e nei periodi riproduttivi durante le diverse fasi del suo ciclo biologico, la frammentazione delle competenze e la difformità delle diverse istituzioni locali nell’affrontare temi come quelli del dei sistemi normativi e procedurali di indennizzo dei danni, e ancora le misure di prevenzione e di mitigazione dei danni oggi in alcuni contesti spesso insufficienti se non addirittura inesistenti. Si deve intervenire quindi prontamente e con risposte efficaci su queste criticità, al fine di ridurre il livello di conflittualità ed ostilità senza ricorrere a ricette dal solo impatto mediatico ma che rischiano di vanificare anni di impegno su temi tanto delicati quanto importanti
A due anni dalla sottoscrizione della Carta di Sulmona, il documento finale del Progetto Life Wolfnet, espressamente richiesto dalla Commissione Europea (comunicazione all’Ente Parco Nazionale della Majella ENV/E-4/FV Ares (2009) n. 125871) e supportata dal Ministero dell’Ambiente, che ne promuove l’inserimento nella redazione del prossimo Piano d’Azione Nazionale per il lupo in Italia (nota prot. DPN – 2009 – 0014012 del 01/07/2009), i gestori di aree protette e gli animatori locali impegnati nelle azioni di tutela del lupo e di miglioramento delle condizioni di coesistenza tra i carnivori selvatici e le attività antropiche si sono dati appuntamento, l’8 aprile 2016, a Sulmona (Aq) per riunire e definire gli elementi di maggiore interesse ed efficacia contenuti nelle buone pratiche fin’ora messe in atto per il futuro del lupo in Italia, e che sono:
- Incremento della conflittualità verso il lupo conseguente a inappropriati sistemi normativi e procedurali di indennizzo del danno.
- devono essere condotti nel più breve tempo possibile dal ritrovamento della carcassa dell’animale sospettato di essere stato predato;
- devono essere semplificati ed economicamente sostenibili dagli allevatori;
- devono comportare l’erogazione dell’indennizzo in un periodo non superiore ai 60 giorni dalla denuncia;
- devono garantire un indennizzo congruo ed in grado di non inficiare la sopravvivenza e l’economia aziendale in caso di danni ingenti o cronicamente ripetuti.
- Persistenza della ostilità nei confronti del lupo da parte degli allevatori e delle comunità locali per misure di prevenzione e mitigazione del conflitto inappropriate.
I sistemi di prevenzione, dunque:
- si studiano territorio per territorio, azienda per azienda, e si concordano con l’allevatore che dovrà applicarli e mantenerli;
- si pianificano sul territorio superando la frammentazione amministrativa;
- si valutano in termini di efficienza e di capacità applicativa da parte dell’allevatore.
- Contrasto delle mortalità illegali
È necessario, dopo la riforma del Corpo Forestale dello Stato, che si identifichi un soggetto in grado di rinnovare e rinforzare la preziosa esperienza svolta dal Corpo Forestale dello Stato e dalle Polizie Provinciali nella sperimentazione del modello operativo dei “GOS” Gruppi Operativi Specialistici, incentrato sull’operatività di uno staff composto da soggetti dotati di diverse competenze (P.G., veterinario, biologo, ecc.) che, nel rispetto della vigente normativa di settore e delle procedure di P.G., sia in grado di favorire una più accurata analisi del caso e conseguentemente una maggiore capacità investigativa e repressiva del crimine.
- Persistenza di rischi o sviluppo di nuove criticità sanitarie per la popolazione di lupo
È del tutto scontato che un monitoraggio sanitario coordinato cane/lupo nelle aree protette e nelle aree critiche, portato avanti costantemente e sul medio-lungo termine, possa essere funzionale anche all’analisi della reale portata ed alla conseguente gestione del fenomeno dell’ibridazione, significativo in diverse aree dell’attuale areale del lupo in Italia.
Una volta sperimentati gli effetti di tali sinergie istituzionali, sia sui territori che nella riorganizzazione del sistema di controllo e gestione del randagismo, sarebbe altresì opportuna, a distanza di oltre 25 anni, una revisione ed un’attualizzazione della legge 14 agosto 1991, n. 281 “Legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo”.
- Disturbo diretto o indiretto al lupo nei siti e nei periodi riproduttivi e alle diverse fasi del ciclo biologico.
Fino ad oggi, la consistenza della popolazione di lupo in Italia è stata valutata principalmente attraverso stime di densità rilevate a livello locale su un numero limitato di aree campione, con una bassa frequenza, in modo irregolare ed utilizzando tecniche tra loro differenti, quali stime soggettive, questionari, tracciatura su neve, wolf howling, ritrovamento di esemplari uccisi e raccolta dei dati relativi. I dati raccolti nell’ambito di queste attività costituiscono, in alcuni casi, stime piuttosto grossolane, effettuate in assenza di protocolli validati e standardizzati e spesso applicate in modo differente nelle varie aree di indagine, che non permettono valutazioni statistiche, rendendo così i risultati poco indicativi e difficilmente comparabili.
In molti casi, inoltre, anche le informazioni più facilmente accessibili (carcasse dei lupi rinvenuti morti, danni causati dal lupo al bestiame d’allevamento, ecc.) non vengono raccolte sistematicamente e si perdono, spesso solo per una mancanza di organizzazione, di coordinamento e di impegno comune da parte dei diversi soggetti che nello stesso territorio detengono i dati. L’esperienza Wolfnet (Life e progetto ex cap. 1551) ha dimostrato come uno specifico ed intensivo monitoraggio (radiotelemetria GPS, videofototrappole, ecc.) condotto sistematicamente su base locale, incentrato soprattutto nelle aree che risultano essere maggiormente critiche per la coesistenza con le attività umane, può consentire di ottenere informazioni di grande rilievo in relazione alle capacità di gestione, rivolte sia alla tutela della specie che alla prevenzione dei conflitti.
È però di fondamentale importanza che gli enti di gestione possano disporre al proprio interno delle giuste competenze professionali, necessarie per la programmazione a lungo termine ed il mantenimento dei livelli idonei di conoscenza scientifica della specie e di come questa interagisce con le attività antropiche nel tempo.
Sarà peraltro necessario mettere a disposizione della rete nazionale uno strumento utile e condiviso che affronti l’unitarietà e promuova la lettura congiunta delle attività di monitoraggio: è in corso di stesura, a tal proposito, un manuale di monitoraggio per tutte le specie di interesse comunitario, compreso il lupo, che contiene anche una scheda sintetica di monitoraggio che andrà applicata da regioni e aree natura 2000, che potrà fornire una base metodologica condivisa e poi arricchita da altre attività specialistiche.
- Insufficiente coordinamento tecnico-istituzionale e frammentazione delle competenze
