Un omaggio a Jane Goodall: I was put in this world to do what I am doing
Il 1° ottobre 2025 è scomparsa Valerie Jane Morris-Goodall, meglio conosciuta come Jane Goodall. Nessuno si sarebbe mai aspettato che da una persona così esile e timida sarebbe emerso un personaggio tanto prestigioso per le ricerche e per l’attività in difesa della natura. Da lei nessuno si sarebbe aspettato dei risultati che le avrebbero dato tanta notorietà e premi importanti: nel 1990 il Premio Kyoto per le scienze di base, nel 2002 il premio assegnatole da Kofi Annan come Messaggero di Pace delle Nazioni Unite, nel 2010, in Italia, il Premio Colombe d’Oro conferitole dal Premio Nobel Rita Levi-Montalcini. Oltre a tutti questi meriti Jane Goodall ne ha avuto un altro, dati i tempi in cui cominciò a fare ricerca al Gombe Stream National Park in Tanzania all’età di 26 anni: fu la prima ad assegnare non dei numeri agli animali, come si faceva fino ad allora, in questo caso ai suoi scimpanzé, ma dei nomi di persona come Dick, David, Charlie, Pom e Prof. Dare dei nomi agli animali significava assegnare loro una personalità, una soggettività e soprattutto una dignità. Questo è stato il primo passo per cominciare a demolire l’idea dell’uomo sempre al centro del mondo e padrone del mondo, un mondo con cui poter fare tutto. Con Jane Goodall cominciarono a vacillare le sicurezze antropocentriche che in effetto sono, e sono sempre state, le cause principali di tutti i nostri mali: inquinamento, pandemie e guerre.
In questo mio omaggio non è però della vita personale di Jane Goodall che voglio parlare. Esistono molte biografie sul suo conto che si possono leggere in un’infinità di riviste, libri e interviste e ognuno si può quindi documentare facilmente. Certo è che la vita privata e la storia personale di Jane Goodall hanno inciso profondamente sulle sue scelte e soprattutto sulla sua determinatezza, molto più forte in lei che in tanti suoi colleghi che hanno lavorato e lavorano sul campo. Le presenze nelle foreste africane dei suoi colleghi erano e sono tuttora frammentarie e spesso occasionali, mentre Jane Goodall ha passato quasi trent’anni della sua vita in contatto permanente con i suoi animali, gli scimpanzé (Pan troglodytes).
Quando Goodall muoveva i suoi primi passi nella ricerca sugli scimpanzé, l’ambiente naturale intorno al Gombe Stream National Park stava peggiorando giorno dopo giorno. I contadini tagliavano le piante, anche quelle secolari, per fare spazio all’agricoltura pensando, erroneamente, che quelle terre strappate alla foresta diventassero più fertili, cosa assolutamente non vera. Ma i danni più gravi della deforestazione non venivano causati solo dai contadini, ma dalle multinazionali del legno che per approvvigionarsi di legno pregiato, non solo tagliavano le foreste, ma costruivano strade e porti lungo il lago Tanganica per poterlo trasportare.
Di fronte a questo disastro, Jane Goodall cominciò a muoversi anche sul piano diplomatico interloquendo con le autorità locali, cercando anche di convincere la popolazione locale di quanto la tutela dell’ambiente fosse molto importante, non solo ai fini della conservazione degli animali, ma per le generazioni future alle quali, altrimenti non sarebbe rimasto più niente.
Nel 1994 Jane Goodall mise in piedi l’organizzazione TACARE (Tanganyka Catchment Reforestation and Education) e il programma di educazione umanitario e ambientale per giovani Roots and Shoots, entrambi rivolti alla promozione di un’agricoltura sostenibile; due progetti che avrebbero dovuto essere però gestiti dalla popolazione locale, non dai burocrati di Dar es Salaam. Jane Goodall ha fatto un’opera di sensibilizzazione impagabile. Sono stati e sono tuttora pochi gli scienziati che oltre all’impegno per la ricerca promuovono progetti di sensibilizzazione per la protezione della natura.
Se noi europei chiedessimo a dei bambini africani, soprattutto quelli che vivono nelle città, se hanno mai visto degli elefanti otterremmo una risosta affermativa da meno della metà di loro (che comunque li avrebbero visti solo negli zoo) e se chiedessimo se hanno mai visto degli scimpanzé in natura, sorprendentemente non otterremmo nessuna risposta affermativa, eppure gli scimpanzé vivono in Africa, non altrove. Gli stessi bambini ci direbbero anche di avere spesso visto delle scimmie morte ed essiccate sui banchi dei mercati. In Africa c’è l’uso di uccidere le scimmie a scopo alimentare, non perché la loro carne sia una prelibatezza, ma per necessità. Di fronte a questo Jane Goodall non si è mai scoraggiata. Ha continuato a coinvolgere Stati e istituzioni varie per la conservazione e con cognizione di causa, mai per sentito dire o senza averne avuta esperienza diretta.
Jane Goodall non si mosse solo in questa direzione. Come pochi sanno, le scimmie vengono tenute in diversi laboratori del mondo per la sperimentazione. Spesso visitandone alcuni rimase sconvolta fino alle lacrime per le pessime condizioni in cui erano imprigionate e ha sempre cercato di sensibilizzare gli operatori per offrire condizioni migliori a questi animali.
Jane Goodall non si è mai persa d’animo (qualsiasi altra persona l’avrebbe fatto) e ha continuato questa battaglia. Non ha mai pensato di lasciar perdere, nonostante non fosse più la giovane ragazza che studiava gli scimpanzé al Gombe Stream National Park.
Un giorno un giornalista del The Wall Street Journal le rivolse due domande alle quali Jane Goodall rispose in una maniera sorprendente che rispecchiava però il suo carattere e il suo impegno per la difesa della natura. Alla prima rispose che fino a quando noi uomini non conosceremo profondamente la natura non potremo mai proteggerla, e che per questo è importante che i bambini inizino al più presto a conoscerla. Nel rispondere alla seconda domanda fu ancora più emblematica. Disse che sono i genitori che dovrebbero incoraggiare i figli, sin da piccoli, a esplorare il mondo della natura magari cominciando dal loro giardino, come d’altra parte fece lei da bambina nella sua casa di famiglia a Bournemouth in Inghilterra, sempre in compagnia del suo scimpanzé di peluche, battezzato Jubilee, regalatole da suo padre in occasione del suo primo compleanno.
C’è un altro fatto che preoccupò Jane Goodall: la diffusione della pandemia da Covid-19, cioè la possibilità che questo virus potesse diffondersi anche tra gli scimpanzé le cui conseguenze sarebbero state molto gravi, data la somiglianza di questi animali con l’uomo con cui condividono circa il 99% del patrimonio genetico. L’anatomia e il sistema immunitario degli scimpanzé sono praticamente uguali ai nostri. Per ora non sono state trovate delle evidenze sul contagio degli scimpanzé, ma c’è la preoccupazione che questo possa accadere e mettere in pericolo definitivamente la loro esistenza. Purtroppo gli scimpanzé corrono ancora questo pericolo, incluso quello delle estrazioni minerarie nel loro territorio, soprattutto di oro, diamanti e coltan, una miscela naturale di due minerali, tantalite e colombite, indispensabile per la costruzione delle componenti elettroniche dei nostri smartphone.
In conclusione ho voluto rivolgere questo breve omaggio a questo grande personaggio, non solo per la sua opera divulgativa e di ricerca sul campo, ma anche per altre ragioni personali. La più importante è stata la lettura che feci dei suoi lavori, soprattutto il primo, che pubblicò nel 1970, dal titolo My friends the wild chimpanzees. Questo articolo mi ha affascinato e ispirato quando, diversi anni dopo, mentre lei lavorava al Gombe Stream National Park e io ero ancora un laureando di biologia, intrapresi la scrittura della mia prima tesi di laurea. La seconda ragione è che lei stessa ha sempre sostenuto che per svolgere bene e con abnegazione un’attività di ricerca sono necessari dei grandi maestri, dei mentori. I suoi sono stati, almeno penso io, il paleontologo Louis Leakey e il Professor Robert Hinde. Quest’ultimo, tra l’altro, fu il relatore della sua tesi di laurea per il suo dottorato, tesi che io ho avuto la fortuna di leggere durante il periodo che ho trascorso al Sub- Department of Animal Behaviour dell’Università di Cambridge.
Vorrei concludere questo omaggio con delle parole molto illuminanti che Jane Goodall pronunciò l’11 luglio 2020 in un’altra intervista rilasciata al The Wall Street Journal: “I was put in this world to do what I am doing”.