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A un giorno dallo stop, il Governo Meloni non ha ancora deciso sulle centrali a carbone

Per il Mase quelle di Brindisi e Civitavecchia «non risultano più competitive rispetto alle altre tecnologie disponibili», ma sta tentando di posporne lo smantellamento: costerebbe 100 milioni di euro l’anno
 |  Nuove energie

Alla vigilia di Natale, il ministero dell’Ambiente ha ricordato che «a fine anno scadrà l’autorizzazione ambientale per la produzione di energia elettrica da carbone delle centrali di Civitavecchia e Brindisi», ma di stare ancora «valutando con attenzione la possibilità e le modalità» per evitarne la dismissione. Domani il 2025 finirà, ma il Governo Meloni non ha ancora preso una decisione nel merito.

«Fermo restando il phase-out del carbone sul continente – dichiara oggi il ministro Pichetto – il Governo ha il dovere di valutare con responsabilità tutte le misure necessarie a garantire la sicurezza del sistema elettrico nazionale, in una fase che continua a essere segnata da instabilità geopolitica e da possibili rischi sugli approvvigionamenti del gas. Ogni eventuale intervento sarà attentamente valutato sotto il profilo tecnico, economico e regolatorio, anche nel confronto con la Commissione europea, e avrà come unico obiettivo la tutela dell’interesse nazionale, senza mettere in discussione il percorso di decarbonizzazione già avviato».

In altre parole il Governo sta valutando un mantenimento in riserva degli impianti, se permesso da quadro normativo nazionale ed europeo: del resto ha annunciato sin da questa primavera l’intenzione di mantenere artificialmente in vita il più inquinante e climalterante dei combustibili fossili, rimandando l’addio definitivo delle centrali dal 2025 al 2038. Ma non ha ancora capito come fare.

Nel Belpaese ci sono ancora 4 centrali termoelettriche a carbone: quelle di Brindisi e Civitavecchia, appunto, e due Sardegna (Fiume Santo e Sulcis). Per queste ultime il problema dello smantellamento non è di stretta attualità, dato che sin dall’inizio la loro deadline la deadline era già prevista al 2028, in attesa di alcuni importanti interventi infrastrutturali a partire dal completamento del Tyrrhenian Link, che consentirà gli scambi elettrici tra Sicilia, Sardegna e il resto d’Italia. Al contrario, per Brindisi e Civitavecchia l’addio nel 2025 è stato fissato sin dalla Strategia energetica nazionale del 2017, fatti salvi i ripensamenti in corso.

Eppure è lo stesso ministero dell’Ambiente a riconoscere che «le due centrali, già ferme da tempo per ragioni economiche e di mercato, non risultano infatti più competitive rispetto alle altre tecnologie disponibili». Il problema dunque è come far tornare i conti, perché mantenerle attive senza che producano elettricità costa circa 100 milioni di euro all’anno, secondo le stime anticipate dal quotidiano di Confindustria, il Sole 24 Ore.

Complessivamente, le centrali a carbone italiane hanno prodotto soli 3,5 TWh nel corso del 2024, coprendo appena l’1,1% dei consumi nazionali. Gli impianti a carbone «funzionano pochissimo perché non competitivi, sommando i costi del carbone e dei permessi ad emettere la tanta CO2 che producono», spiega l’economista Michele Governatori, responsabile Relazioni esterne ed Energia del think tank climatico Ecco, aggiungendo che «lasciarle in funzione, anche solo come riserva, implicherebbe: rimangiarsi la strategia energetica e climatica nazionale (approvata da Bruxelles); sussidiare le centrali a spese dei consumatori o dei contribuenti; rimandare il recupero a usi civili di aree spesso di pregio che invece devono essere bonificate dagli operatori; mostrare i riflessi condizionati di una politica che si aggrappa al passato a tempo scaduto per incapacità di vedere, raccontare, gestire il presente e il futuro con tutte le relative opportunità e responsabilità».

Un po’ come già succede col gas fossile, ad esempio attraverso il meccanismo del capacity market che impatta sulla bolletta elettrica dei consumatori: «Per garantirne la disponibilità e quella di centrali per bruciarlo sono in campo da anni forme di sussidio ai costi fissi delle centrali, e in seguito alla crisi Ucraina si sono fatti investimenti per alcuni miliardi (a spese di tariffe e temo in futuro tasse) per diversificare gli approvvigionamenti con nuovi rigassificatori e tubi».

Ad esempio, si stima che la recente decisione dell'amministrazione Trump di emettere ordinanze di emergenza per prolungare la vita utile delle vecchie centrali a carbone rappresenterà un onere finanziario per gli americani pari fino a 5,9 miliardi di dollari l’anno. Un modello che, evidentemente, il Governo Meloni è intenzionato a copiare dall’alleato di estrema destra Oltreoceano.

Del resto già il ministro Salvini – a sua volta emulo di Trump – ad aprile aveva proposto di rinviare la chiusura delle centrali a carbone, sempre con la pretesa di abbassare il costo dell’elettricità. E ad aprile la risposta è delle principali associazioni ambientaliste (Wwf, Greenpeace, Legambiente e Kyoto club) è stata un secco «no grazie», affermando che «i lobbisti del carbone (per lo più di provenienza russa) non hanno perso le speranze e hanno approfittato di qualche sfarfallamento dei prezzi del gas per tornare alla carica, forti di un’analisi quantomeno discutibile e, soprattutto, titillando gli interessi delle due aziende partecipate (Eni ed Enel) che per ragioni diverse ora propongono il rinvio. Questo può succedere solo quando non c’è un Governo e dei tecnici che attuano davvero le politiche messe su carta».

Redazione Greenreport

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