
L’Ue tra crediti di natura e crediti di carbonio: la biodiversità non è “scambiabile” su scala globale

Negli ultimi mesi in Europa si è discusso di due temi chiave per la lotta al cambiamento climatico:
- L’aggiornamento dei target di riduzione delle emissioni al 2040
- Lo sviluppo di nuovi nature credits, concettualmente simili ai carbon credits, da utilizzare in un mercato regolato tra aziende, sul modello dell’EU Emissions Trading System (ETS)
Target 2040 e carbon credits internazionali
Uno dei temi centrali è stato l’introduzione di un obiettivo intermedio di riduzione delle emissioni per il 2040. Attualmente, l’Unione Europea ha due traguardi vincolanti: una riduzione del 55% delle emissioni entro il 2030 (rispetto ai livelli del 1990) e la neutralità climatica entro il 2050.
La Commissione Europea ha proposto un nuovo obiettivo: ridurre del 90% le emissioni di CO₂ entro il 2040. La proposta è stata fortemente sostenuta dal commissario europeo per il clima, Wopke Hoekstra.
Per raggiungere questo ambizioso traguardo, la Commissione ha introdotto una misura controversa: permettere l’utilizzo, seppur limitato, di carbon credits internazionali. In pratica, le aziende europee potranno compensare una parte delle loro emissioni acquistando crediti di carbonio generati fuori dall’Unione europea, in particolare in Paesi in via di sviluppo.
Il 2 luglio, la proposta è stata approvata dalla Commissione Europea e presentata pubblicamente dalla presidente Ursula von der Leyen con queste parole:
“Oggi dimostriamo che manteniamo il nostro impegno per la decarbonizzazione dell’economia europea entro il 2050. L’obiettivo è chiaro, il percorso è pragmatico e realistico.”
La misura prevede che dal 2036, fino a un massimo del 3% delle riduzioni previste potrà essere coperto attraverso carbon credits esteri.
Le critiche: efficacia, controllo e legittimità
La proposta ha suscitato forti critiche da parte di numerose organizzazioni della società civile e del mondo scientifico, che ne mettono in discussione sia l’efficacia ambientale che la legittimità etica. Uno dei timori principali riguarda la perdita di credibilità climatica dell’Unione europea: ammettere l’uso di crediti esterni per compensare parte delle emissioni rischia di indebolire il ruolo dell’UE come leader globale nella lotta alla crisi climatica. Anche se le emissioni nette risultassero azzerate sulla carta, in realtà una parte delle riduzioni non avverrebbe all’interno dei confini europei, ma sarebbe “delegata” altrove.
A questo si aggiunge un problema legato alla qualità dei carbon credits internazionali. Esperienze passate hanno mostrato che molti di questi crediti si sono rivelati privi di reale efficacia climatica: in alcuni casi, l’impatto dichiarato era fino a nove volte superiore rispetto a quello effettivo, spesso senza verifiche rigorose o con progetti la cui utilità era dubbia. Il rischio è che si crei un sistema fondato su compensazioni “di carta”, che non contribuiscono in modo concreto alla decarbonizzazione globale.
Ma la questione più profonda è forse quella etica e geopolitica. Spesso, i benefici economici derivanti dalla vendita di questi crediti non arrivano alle comunità locali, ma si disperdono tra intermediari e soggetti esterni, lasciando sul territorio solo vincoli e restrizioni. In alcune aree del mondo, progetti di compensazione mal regolati hanno causato conflitti sociali, espropri e limitazioni all’uso tradizionale della terra, colpendo in particolare popolazioni indigene e rurali.
A tutto questo si aggiunge un ulteriore nodo, che riguarda la giustizia climatica. I benefici ambientali generati da questi progetti vengono contabilizzati in Europa, che può così continuare a emettere CO₂ pur risultando formalmente “neutrale”. Questo solleva una domanda difficile ma necessaria:
È giusto che i Paesi ricchi continuino a inquinare, usando i progetti dei Paesi poveri per “compensare”?
Secondo molti osservatori, questa logica rischia di riprodurre dinamiche storiche di disuguaglianza, in cui i Paesi del Sud globale forniscono risorse – in questo caso, ambientali – ai Paesi del Nord, senza controllo democratico né benefici equi. In assenza di una governance trasparente e condivisa, il pericolo è quello di alimentare nuove forme di “colonialismo verde”, più che favorire una transizione realmente giusta e globale.
Anche se la soglia prevista per i crediti esterni – il 3% a partire dal 2036 – può sembrare bassa, il timore è che rappresenti solo l’inizio di un processo più ampio. Una sorta di apertura graduale che, anziché rafforzare l’ambizione climatica europea, potrebbe rallentarla, spostando altrove la responsabilità della transizione.
Il dibattito sui nature credits: tutela della biodiversità o greenwashing?
Oltre ai carbon credits, negli ultimi mesi ha preso piede anche il dibattito sui nature credits: strumenti pensati per valorizzare e “scambiare” interventi di tutela della biodiversità all’interno di un mercato simile a quello dei crediti di carbonio. L’idea è in discussione da tempo anche in ambito accademico e ha ricevuto grande attenzione pubblica dopo un intervento della presidente Ursula von der Leyen, che li ha presentati come un’opportunità per evitare il greenwashing e promuovere la protezione della natura.
Tuttavia, le criticità sono numerose. Dal lato aziendale, molti temono che questi crediti possano finire per funzionare esattamente come i carbon credits: un’impresa potrebbe danneggiare gravemente un ecosistema da una parte del mondo, per poi “compensare” l’impatto acquistando nature credits generati da progetti di conservazione o riforestazione altrove, magari gestiti da ONG o attori privati. Questo meccanismo rischia di legalizzare la distruzione della biodiversità, creando un sistema sbilanciato che premia l’apparenza della sostenibilità, piuttosto che la sua sostanza.
Inoltre, a differenza della CO₂, la biodiversità non è “scambiabile” su scala globale. La CO₂ ha un comportamento uniforme nell’atmosfera: ridurla in un punto del pianeta ha lo stesso effetto climatico che ridurla altrove. Ma la biodiversità è intrinsecamente locale. Ripiantare alberi in Calabria non compensa la perdita di specie uniche in Amazzonia, e viceversa. Ogni ecosistema ospita specie, funzioni ecologiche e relazioni sociali che non possono essere replicate altrove. Questo rende molto difficile immaginare uno scambio standardizzato e “neutrale” di nature credits tra Paesi, regioni o aziende.
Infine, c’è una questione fondamentale: la biodiversità non si può misurare come la CO₂. Mentre per la CO₂ esiste un’unità chiara (la tonnellata), la biodiversità è un concetto molto più complesso e multidimensionale. In ambito scientifico esistono oltre mille indicatori diversi per misurarla: alcuni focalizzati sulle specie animali, altri sulle piante, altri ancora sulle funzioni ecosistemiche. Quale criterio si dovrebbe adottare per creare un credito valido? E con quale legittimità? In più, ogni area geografica ha un valore naturale di biodiversità diverso anche in assenza di attività umane, rendendo ancora più difficile stabilire una baseline comune.
In sintesi, i nature credits pongono problemi scientifici, etici e pratici ancora irrisolti. Il rischio è quello di costruire un nuovo mercato della compensazione senza solide basi, amplificando le disuguaglianze e rendendo la tutela della natura un’illusione contabile piuttosto che una realtà concreta.
In questo contesto, non si può ignorare la questione delle risorse economiche. Mentre si discutono strumenti di mercato come carbon e nature credits, resta irrisolta la domanda su come finanziare la transizione in modo equo e stabile. In un articolo pubblicato recentemente su Domani, approfondiamo la necessità di una fiscalità più progressiva per sostenere gli investimenti ambientali senza gravare sulle fasce più deboli. Se l’Europa vuole davvero guidare la transizione ecologica, serve un ripensamento strutturale della politica fiscale, capace di mobilitare risorse laddove oggi si concentrano ricchezza e responsabilità.
