Il ritorno dell’energia nucleare in Italia? Per l’economia ecologica è un non senso
Oggi più che mai, in occasione della Giornata mondiale dell’ambiente, dobbiamo sottolineare l’importanza di essere consapevoli dei flussi di energia e materia che sostengono le nostre società e generano gli impatti delle attività umane sugli ecosistemi. Solo una visione integrata consente di superare approcci parziali che separano l’uomo dalla natura e di concepire l’ambiente non tanto come “natura”, ma come il luogo in cui viviamo, il nostro habitat.
Nel dibattito attuale continuano purtroppo a dominare idee grossolane, la cui infondatezza è dimostrata non solo dalla ricerca scientifica, ma anche intuibile da chi abbia una mente libera e scevra da pregiudizi ideologici. Innanzitutto: com'è possibile che la questione ambientale venga ancora inquadrata come un tema “di sinistra”, anziché come una sfida universale? Le malattie legate alle condizioni del nostro habitat forse colpiscono in modo diverso gli elettori di destra rispetto a quelli di sinistra?
Leggendo molti dei contributi del professor Joan Martinez-Alier, risulta evidente quanto sia errato separare la crescita del prodotto interno lordo (Pil) dai danni ambientali che essa comporta. Un altro tra i padri fondatori dell’economia ecologica, Herman Daly, ha sviluppato il concetto di “crescita anti-economica”: quella situazione in cui l’espansione della dimensione del mercato – che è ciò che il Pil misura – inizialmente porta benefici materiali, ma oltre una certa soglia gli svantaggi superano i vantaggi, generando effetti negativi sul benessere collettivo. Se il principio che esiste una dimensione ottimale vale in microeconomia, e in molti aspetti della vita quotidiana, perché non dovrebbe valere anche a livello macroeconomico? Riporre una fede cieca nella crescita del Pil – che oggi, tra l’altro, non garantisce più un aumento dell’occupazione come un tempo – è indice della grave “obesità materiale” che affligge le nostre società.
Per comprendere la portata di questa malattia, è sufficiente guardare, con mente libera dai condizionamenti ideologici, ai dati sui consumi energetici globali, facilmente reperibili sulla piattaforma Our World in Data. Dal 2000 al 2023, il consumo energetico mondiale è aumentato del 50%, con i combustibili fossili ancora protagonisti assoluti.
Qui verrà in mente a qualcuno che occorre dare fiducia al nucleare. Anche questo, però, è difficilmente spiegabile. Il nucleare è una tecnologia che ha mostrato pochi progressi nel corso dei decenni e presenta gravi difficoltà intrinseche. Il risultato è che, oltre a rimanere ancora irrisolto il problema delle scorie (e dello smaltimento a fine vita delle centrali), risulta anche estremamente costosa. Le stime in merito sono numerose – si vedano, ad esempio, i rapporti di Lazard sul Levelized cost of energy (Lcoe).
Se tuttavia non si intende dar fiducia a tali stime, resta comunque un dato oggettivo: il nucleare non riesce ad attrarre capitale privato senza ingenti contributi statali. Se il settore fosse davvero redditizio, le imprese private avrebbero costruito reattori a fissione ovunque fosse possibile, come negli Stati Uniti. Eppure, nonostante il Dipartimento dell’Energia degli Usa abbia promosso attivamente la presentazione di domande, dal 1978 sono stati rilasciati solo 8 permessi per la costruzione di reattori, e solo due di questi sono poi entrati in funzione.
Perché dunque “gettare” i soldi dei contribuenti, quando le rinnovabili hanno dimostrato e continuano a dimostrare progressi rapidissimi, e permettono di generare elettricità a costi molto bassi – tanto da attrarre capitale privato? Perché si insiste tanto sull’intermittenza, quando oggi le griglie intelligenti e la rapida evoluzione tecnologica dei sistemi di accumulo permettono di superare il problema? È una questione ideologica, o piuttosto il segno che fatichiamo a liberarci di una visione obsoleta e antiquata, incapace di stare al passo con i tempi?
Non sarebbe molto più semplice accettare il fatto che il mondo cambia, e che ogni politica orientata al benessere umano dovrebbe fondarsi sulla riduzione del prelievo di materie dalla natura e degli enormi sprechi di energia e risorse che caratterizzano i Paesi più ricchi? Perché, se un individuo si prende cura della propria casa – ad esempio togliendosi le scarpe infangate al ritorno da una passeggiata – la politica sembra invece incapace di accettare la necessità di prendersi cura della nostra casa comune, come ci ha esortato a fare anche Papa Francesco?