Tra ecofascismo e petro-mascolinità, l'ambientalismo porta l'estrema destra in crisi d'identità
Incolpare l’ambientalismo per il fallimento del capitalismo può essere uno strumento retorico potente, ed è quanto stanno tentando di fare le estreme destre in tutto il mondo pur di non affrontare le crescenti disuguaglianze che minano alla base la tenuta delle nostre società democratiche. La necessaria rivoluzione climatica, col suo implicito ribaltamento dei rapporti di potere in campo, crea una crisi di identità contro la quale le proposte reazionarie rappresentano un meccanismo di autodifesa. Come se ne esce? Ne parliamo con gli storici dell’ambiente Marco Armiero e Roberta Biasillo in questa intervista doppia.
Intervista
Non solo negli Usa ma anche in Europa – come mostra la retorica contro il Green deal – gli ambientalisti, dopo i migranti, sono il nuovo nemico antropologico dell’estrema destra. Perché?
MA: L’estrema destra – a volte apertamente fascista, altre volte nostalgica, comunque sempre disinteressata a coltivare la memoria della violenza di quei regimi – ha continuamente bisogno di produrre nemici. L’identità a buon mercato che propone è un “noi” facile, che fa credere di appartenere a una comunità basata sull’odio contro qualcuno o qualcosa. Migranti, ambientalisti, persone queer, comunisti (con un’accezione molto larga e vaga del termine), intellettuali sono tra i bersagli prediletti di queste destre che coltivano odio per immagazzinare consensi.
L’ambientalismo è spesso dipinto come una roba da ricchi, per persone che possono permettersi l’automobile elettrica e il cibo biologico. Si sostiene che l’ambientalismo punisca i lavoratori imponendo leggi e misure che impattano gravemente sui posti di lavoro. Facile rinunciare all’automobile se si vive nel centro cittadino; più complesso se il mercato immobiliare ti ha espulso dal centro e costretto in una periferia, magari senza metropolitana e con pochi autobus.
A me pare che i limiti di un certo ambientalismo siano reali – e, per la verità, tutto merito nostro – ma che sia altrettanto surreale ritenere credibili le critiche delle destre estreme, da Trump alle nostre. È vero che un certo ambientalismo ha dimenticato la classe, o in altri termini ha pensato che la questione ecologica fosse indipendente dalla giustizia sociale; ma stupisce però che si possa credere che l’uomo più ricco della terra possa capire e poi rappresentare gli interessi di chi fatica ad arrivare alla fine del mese.
Incolpare l’ambientalismo per il fallimento del capitalismo può essere uno strumento retorico potente – molto potente, soprattutto se si controllano i mezzi di informazione, si distrugge l’istruzione pubblica e si reprime il dissenso. La destra può mobilitare uno dei suoi cavalli di battaglia preferiti sulle burocrazie che ingessano il mercato e rendono tutto più difficile (dal circolare con la propria automobile al continuare a inquinare senza pensarci troppo).
Ma l’unico modo per reagire a questo attacco non è tanto difendere l’ambientalismo e informare il pubblico; piuttosto, credo che dobbiamo cambiare l’ambientalismo. E, per la verità, lo stiamo già facendo.
Questo fanno i movimenti per la giustizia ambientale, che pongono il problema dell’iniqua distribuzione di rischi e benefici (insomma: se sei ricco vivi con un bel affaccio sul mare, se sei povero ti tocca la discarica o la fabbrica inquinante). Questo fanno i sindacati quando hanno proposto la campagna per un milione di posti di lavoro legati alla mitigazione e all’adattamento al cambiamento climatico.
E, infine, questo facciamo anche noi storiche e storici quando ricordiamo che l’ambientalismo non fa rima solo con le élite, e che è esistito – ed esiste – un ambientalismo di classe, operaio (penso alle ricerche di Stefania Barca su questi temi), e quando proviamo a smontare i luoghi comuni che dipingono l’ambientalismo come qualcosa riservato a chi ha la pancia e soprattutto il portafogli pieni.
RB: Aggiungo che è proprio il cambiamento del movimento ambientalista negli ultimi decenni nei Paesi occidentali a creare la frizione tra destra e protezione dell’ambiente. Quando l’ambientalismo si è legato allo sviluppo di un’opinione pubblica radicata nelle convinzioni democratiche ha smesso di allinearsi e contribuire alla costruzione identitaria e tradizionale della nazione - come succede con l’istituzione dei parchi nazionali nell’Ottocento fino alla prima metà del Novecento. Nel secondo Novecento l’ambientalismo - così come i costi dello sviluppo economico liberale e neoliberista - è diventato di classe, di genere, di comunità e ha mostrato i limiti della retorica della nazionalizzazione che aveva informato la conservazione ambientale fino a quel momento. Il movimento ambientalista da Rachel Carson in poi non è sinonimo di conservazione ma di cambiamento profondo e strutturale del modello di produzione. Opinione pubblica, contestazione, democrazia, pluralismo, giustizia socio-ambientale sono tutti termini che rimangono fuori dal dizionario delle destre storiche.
Durante il fascismo nacquero i primi Parchi nazionali, e al contempo scomparvero gli ecosistemi delle paludi cambiando il volto della patria, come spiegate nel vostro libro "La natura del duce" (Giulio Einaudi Editore, 2022). Oggi al negazionismo climatico si affianca in parallelo il ritorno di nuove forme di ecofascismo: come valuta quest’evoluzione?
MA: Nel libro pubblicato da Einaudi, e tradotto in inglese da MIT Press e in spagnolo da Comares, proviamo a smontare una frottola sul regime fascista. Tra le immaginarie “cose buone” attribuite al regime ci sarebbe la presunta passione ambientalista dimostrata con la creazione dei primi parchi nazionali. Come spieghiamo nel libro, in realtà il Parco nazionale d’Abruzzo e quello del Gran Paradiso, istituiti agli inizi del regime, non erano affatto una creazione fascista – il regime si era insediato da poco – bensì il frutto di una lunga gestazione avvenuta nel periodo liberale. Durante il ventennio furono effettivamente istituiti altri parchi nazionali, il Circeo e lo Stelvio, ma in entrambi i casi si trattava di parchi concepiti per celebrare il passato della nazione più che per preservare la flora o la fauna.
Con la sua postura autoritaria e l’allergia a qualunque forma di autonomia, il regime si adattava poco a un modello di parco nazionale che combinasse expertise scientifica e partecipazione. Vorrei anche aggiungere che, come spieghiamo nel libro, la questione non è contare quanti alberi furono piantati o quanti ettari inclusi in un parco nazionale – quella che definiamo nel libro “aritmetica verde”. Si possono piantare eucalipti al servizio delle grandi infrastrutture idroelettriche o dell’industria della carta, promuovendo sistemi socioecologici che riducono più che accrescere la biodiversità. E vivendo in Spagna, devo dire che colpisce la passione dei regimi fascisti per questo albero a rapido accrescimento.
Sono d’accordo che il rischio ecofascista sia importante e forse sottovalutato. Non credo che la questione sia una qualche celebrazione delle presunte radici fasciste dell’ambientalismo – una questione davvero marginale e, credo, senza grandi effetti concreti. Intendo l’ecofascismo come la tentazione di ricorrere a strumenti decisionali verticali e gerarchici per far fronte all’urgenza della crisi ecologica. Questo sì che mi pare un pericolo serio. La paura va spesso di pari passo con la ricerca di soluzioni verticali e con la riduzione degli spazi democratici. Se la casa brucia, non c’è tempo per un’assemblea: bisogna agire e obbedire a chi sa come si spegne l’incendio. Non vorrei essere frainteso: è ovviamente giusto seguire le istruzioni dei pompieri in caso d’incendio. Ma la metafora serve a chiarire un punto: l’idea che l’emergenza ambientale possa essere risolta attraverso poteri forti, capaci di prendere decisioni rapide e senza troppe discussioni, è la base del nuovo ecofascismo.
In un’intervista di qualche anno fa per Il Tascabile con Stefano Dalla Casa avevo proposto la nozione di “ecoautoritarismo” per descrivere il rischio di un utilizzo delle questioni ecologiche per portare avanti politiche autoritarie e chiudere spazi di partecipazione. È per questo che, in un intervento per Jacobin Italia scritto a quattro mani con Egidio Giordano, un attivista del movimento campano Stop Biocidio, proponevamo di passare dalla richiesta di stato di emergenza climatica a una proclamazione di stato di rivoluzione climatica, proprio per mettere in rilievo i rischi autoritari e antidemocratici inerenti ai regimi emergenziali.
RB: Riparto dalla questione dei parchi nazionali istituiti – o meglio creati, come ha giustamente notato Wilko Graf von Hardenberg – durante il fascismo, e faccio riferimento in particolare al Parco Nazionale del Circeo perchè è emblematico nel mostrare la connessione tra ambiente nazionale come tradizione inventata (per usare una categoria usata appunto per spiegare le tradizioni nazionali/ste) e legame tra autoritarismo e ambiente. Intanto il parco venne istituito in una regione completamente trasformata dal regime per celebrare la fascistizzazione del territorio e mostrare la capacità trasformativa del regime. Non era assolutamente presente l’intenzione di proteggere un ecosistema (anche perché dovremmo parlare di ecosistemi al plurale nel caso pontino) nella individuazione di un’area destinata a mostrare la situazione pre-bonifica. Come ho mostrato in un saggio sulla creazione dell’Agro pontino, il prosciugamento delle zone umide e il taglio della foresta planiziale più estesa del Paese procedettero di pari passo con la riduzione degli spazi di partecipazione democratica – con tutti i suoi limiti – e dei saperi legati alla gestione ambientale, con la estromissione di comunità migranti e locali che da secoli gestivano la palude e con la riduzione drastica e irreversibile della biodiversità. Insomma, di nuovo, molto di nazione fascista e poco di ecologico. Quindi, parlare di ecofascismo può anche essere una contraddizione in termini se si guarda a questa possibilità dal punto di vista storico.
Come osserva da ultimo Paul Krugman, c’è una crescente saldatura tra manosfera – l’area che spazia dai celibi involontari (Incel) ai gruppi anti-femministi per i diritti degli uomini – e anti-ambientalismo. Al centro del problema ci sarebbe la crisi d’identità dell’uomo bianco, che si sente minacciato dai diritti delle donne e delle minoranze più che da un modello sociale ormai opprimente per tutti tranne che per i vertici. Cosa ne pensate?
RB: è esattamente così e negli studi di sociologia ambientale questa saldatura viene definita petro-masculinity. Conservare – termine che ricorre spesso sia in ambito politico che ambientale, come stiamo vedendo in questa intervista – il sistema di produzione fondato sulle energie fossili implica, da un lato, la necessità di negare il cambiamento climatico e i suoi effetti e, dall’altro, continuare ad accreditare un modello di produzione che si fonda sulle strutture patriarcali occidentali. Il dibattito sulle società post-fossile impone un ripensamento sociale che metta al centro esperienze di cura delle risorse e della natura. Cito ancora una volta Stefania Barca perché il suo Forze di riproduzione espone la saldatura tra sviluppo fossile, misoginia ed élite, e mostra come una società non più fondata sul petrolio – e aggiungo, anche sul nucleare – deve fondarsi sul paradigma di tutte quelle forze che sono state sfruttate e silenziate dal capitalismo, ma che hanno permesso alla vita e alla natura di continuare a vivere. Da qui il titolo Forze di riproduzione. Considerare la riproduzione un valore riconosce la centralità di esperienze di cura legate al ruolo delle donne, delle comunità e dei saperi indigeni/dal basso. Questo ribaltamento dei rapporti di potere crea appunto una crisi di identità che può essere difesa attraverso pratiche e proposte reazionarie.
Come i fascismi di un secolo fa, l’estrema destra ha saputo intercettare questo disagio – insieme al risentimento provocato da un sistema economico dove il Pil cresce insieme alla disuguaglianza, mentre i salari reali sono in calo da trent’anni – presentandosi come forza anti-sistema, nonostante abbia il sostegno dell’élite economica: come potrebbe farlo anche la sinistra, per offrire soluzioni di stampo progressista?
MA: È ormai da un po’ che la sinistra pensa di dover competere con le destre sul loro stesso terreno. In altri termini, la questione sembra essere chi sia capace di fare le stesse cose, ma con maggiore efficacia. Questo è anche il risultato di una globalizzazione economica selvaggia che ha svuotato i luoghi della democrazia, lasciando davvero pochi strumenti nelle mani degli organismi elettivi. La mia impressione è che, se si vogliono misure di destra, tanto vale votare direttamente a destra, e non a chi, a sinistra, le scimmiotta.
Negli ultimi tempi abbiamo visto una sinistra progressista vincere a New York, in Irlanda e in Colombia. È una sinistra che parla chiaro, che sostiene i più deboli, che propone misure per limitare le diseguaglianze. In Italia, la mia impressione è che, se prima erano le destre a non andare a votare, oggi è anche un elettorato potenzialmente progressista a non sentirsi rappresentato. Certo, anche un sistema elettorale interamente concentrato sulla governabilità, e che cancella la rappresentanza, non aiuta. Quando ero ragazzo ho votato a volte per partiti piccoli che però avevano uno spazio negli organismi elettivi. Non sempre è possibile vincere da soli e, a volte, in politica occorre allearsi; ma questa alleanza non deve portare all’annientamento della nostra identità.
La situazione a sinistra è complessa, non c’è dubbio. Mi preoccupa il tasso elevatissimo di conflittualità interna, che spinge a cercare il nemico sempre tra chi ci è più vicino. Seguo attraverso mia figlia, con grandissimo interesse e altrettanta tristezza, ciò che sta accadendo nel Regno Unito con il progetto del Your Party di Jeremy Corbyn, dove una conflittualità continua sta corrodendo l’entusiasmo di chi ci aveva creduto. Eppure mai come ora c’è una domanda di radicalità: la crisi è profonda e c’è bisogno di politiche che sostengano chi non ce la fa.
Io ho smesso di credere nel partito-chiesa, perfetto, nel quale mi riconosco come in uno specchio; mi convince invece l’idea di candidare persone che provengano da esperienze concrete di movimento, che sappiano interpretare le domande degli strati più deboli, che abbiano un contatto diretto con la base. La mia convinzione è che in questo rapporto diretto, autentico, non strumentale ci siano gli ingredienti per quella sinistra nuova che vogliamo.
In Sardegna – nonostante le principali associazioni ambientaliste si siano unite per spiegare come la principale minaccia per il paesaggio sia la crisi climatica, non certo gli impianti rinnovabili – si moltiplicano le sindromi Nimby e Nimto contro rinnovabili e batterie, mentre l’isola ospita due centrali e carbone e si appresta ad accogliere due nuovi rigassificatori. La politica del risentimento si sta facendo largo anche in aree a guida progressista?
RB: Non entro nella questione particolare dell’opposizione agli impianti in Sardegna perché non conosco i casi e le storie delle rivendicazioni, però poni una questione importante. Chiamarla politica del risentimento connota le posizioni dei gruppi ambientalisti in maniera negativa e certamente nel breve tempo e nello specifico non porta a risolvere emergenze pressanti riguardo alle questioni ambientali. Guardando, però, al fenomeno dal punto di vista globale sono state le aree interessate da estrattivismo, effetti dei cambiamenti climatici e tarda – se non assente – industrializzazione come il Brasile, l’India e i piccoli stati insulari Marshall e Maldive a mettere in discussione alcuni accordi per il clima sulla base del “principio di responsabilità”. Alla COP-3 di Kyoto la richiesta di riconoscere la responsabilità storica di ciascun paese nell’immissione di CO2 nell’atmosfera e valutare le quote di gas serra di ciascun stato calcolandole sulle emissioni totali a partire dalla Rivoluzione industriale non venne accolta in sede di negoziazione. Così come la richiesta indiana di considerare il numero di abitanti per stato nell’assegnare i limiti di inquinamento non trova spazio negli accordi sul clima.
Questa digressione per dire che bisogna avere uno sguardo di lungo periodo prima di bollare alcune esperienze come Nimby o Nimto e soprattutto bisogna ascoltare le comunità e offrire un piano equo, di lungo termine e che tenga conto dei prezzi pagati al progresso da ciascun territorio. La storia della Sardegna come area di sfruttamento di risorse naturali nella storia d’Italia potrebbe aiutarci a navigare le richieste del presente.
MA: Sono completamente d’accordo con Roberta. Se mi permetti una battuta un po’ provocatoria, il Nimby è soprattutto dei ricchi che non vogliono impianti impattanti nei loro giardini. Si accusano sempre le comunità che resistono di essere Nimby, ma invece nei miei studi ho trovato tante comunità che avevano proposte diverse o che semplicemente erano stanche di essere le zone di sacrificio per il benessere di qualcun altro.