La transizione ecologica al contrario di Eni e Coldiretti, tra carbone e nucleare
Tra gli interventi arrivati a chiudere la due giorni del Forum internazionale dell’agricoltura e dell’alimentazione a Roma, organizzato da Coldiretti – la principale organizzazione degli imprenditori agricoli italiani, che da tempo alimenta le tensioni contro il Green deal in sintonia col Governo Meloni più che col sentiment della gran parte degli agricoltori – spicca quello di Claudio Descalzi: è l’ad di Eni, la multinazionale controllata di fatto dal ministero dell’Economia le cui emissioni di CO2eq sono più elevate di quelle dell’Italia intera.
Basti osservare che secondo i bilanci di sostenibilità pubblicato dalla stessa Eni (dati 2022), considerato l’intero ciclo di vita, le emissioni nette fino allo Scope 3 del Cane a sei zampe ammontano a 419 mln di ton di CO2eq l’anno, più di tutte le emissioni imputabili all’Italia, che ammontano (dati Ispra 2022) 413 mln di CO2 (che calano a 392 considerando anche l’apporto Lulucf, ovvero uso del suolo, cambiamenti di uso del suolo e silvicoltura).
Eppure per Descalzi «l’Europa ha trasformato la transizione in una bandiera ideologica, spesso scollegata dalla realtà industriale ed economica, e oggi i nodi stanno venendo al pettine». Quali nodi? «L’errore dell’Europa – sintetizza Coldiretti – è stato quello di affrontare il tema in modo monodimensionale, puntando quasi esclusivamente sulla riduzione delle emissioni e abbandonando fonti che restano centrali in molti Paesi. Il carbone, per esempio, rappresenta ancora il 34-35% della produzione elettrica mondiale. La Germania, dopo aver chiuso le centrali nucleari, ha riaperto impianti a carbone, con conseguenze anche sull’aumento delle emissioni».
Peccato che il nodo centrale della lotta alla crisi climatica in corso stia esattamente nella riduzione delle emissioni antropiche di gas serra, legate in primo luogo all’impiego di combustibili fossili, che rappresentano al contempo – come sancito oggi anche dalla Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn) – la principale minaccia alla biodiversità, e che in Germania tali emissioni stiano calando anche dopo l’abbandono del nucleare.
«Un esempio interessante è la Spagna – continuano da Coldiretti – che ha tentato di coprire quasi il 100% del fabbisogno con rinnovabili, riducendo però la flessibilità del sistema. In alcune aree del Nord del Paese si sono verificati blackout localizzati proprio perché la rete non era in grado di reagire tempestivamente alla mancanza di sole o vento. Esperimenti di questo tipo sono utili, ma dimostrano che le rinnovabili da sole non bastano». In realtà, sia il primo rapporto tecnico nel merito pubblicato dal Governo spagnolo sia il successivo (ma ancora non definitivo) rapporto elaborato da Entso-e – l’European network of transmission system operators for electricity – confermano che la sovratensione a cascata è stata il problema principale che ha portato al blackout iberico, scagionando le rinnovabili.
È certamente vero che le rinnovabili da sole non bastano, perché occorrono anche ingenti investimenti in stoccaggio e nell’adeguamento delle reti, ma è utile osservare che in Spagna proprio eolico e solare sono stati determinanti per disaccoppiare i prezzi del gas (fossile) da quelli dell’elettricità, godendo oggi di prezzi tra i più bassi d’Europa che permettono al Pil spagnolo di crescere quattro volte più velocemente di quello italiano.
«L’Europa continua inoltre a trascurare il ruolo dei biocarburanti – continua imperterrita Coldiretti – nonostante rappresentino una risorsa importante per la mobilità, che oggi dipende ancora per oltre il 95% dai carburanti tradizionali. In Germania, dove sono stati testati in modo più ampio, i biocarburanti di ultima generazione riducono le emissioni fino al 90%, garantendo le stesse prestazioni dei motori convenzionali. Nonostante ciò, Bruxelles continua a ostacolarne l’uso, privilegiando soluzioni elettriche che richiedono materie prime – come litio e cobalto – importate in gran parte dalla Cina».
Biocarburanti avanzati e biometano possono effettivamente rivestire un ruolo propulsivo per la transizione ecologica, quando le relative filiere sono davvero sostenibili – ad esempio da scarti alimentari, e sole in alcune condizioni da colture dedicate –, e in particolare in segmenti del comparto trasporti hard to abate come l’aviazione, ma è illusorio pensare che possano fare concorrenza all’elettrificazione nel segmento auto: anche le Pmi italiane della filiera automotive chiedono ormai di accelerare sull’elettrico (sul quale l’Italia è in drammatico ritardo per assenza di politica industriale), contro il quale non c’è partita anche solo per un mero fattore d’efficienza: circa il 70% dell’energia in ingresso in un motore a combustione viene disperso sotto forma di calore, mentre l’efficienza di un motore elettrico si aggira attorno al 90%.
Per quanto riguarda invece il tema della dipendenza dalla Cina, come osservano da Ember, importare 1 GW di pannelli solari costa 100 mln di dollari e garantisce 1,5 TWh di elettricità all’anno; anche importare gas naturale liquefatto (Gnl) per produrre 1,5 TWh di elettricità costa 100 mln di dollari, ma col fotovoltaico si risparmiano 100 mln di dollari per i 29 anni successivi. La strada maestra per l’autonomia strategica – nonché per frenare la crisi climatica coi relativi danni – passa dunque dall’accelerare il più possibile l’installazione di impianti rinnovabili, mentre l’importazione di combustibili fossili (compresi quelli di Eni) è costata al Paese 230 miliardi di euro negli ultimi tre anni.
Come non terminare la filippica contro la transizione energetica parlando di nucleare? E infatti «riguardo al nucleare, la risposta è sì: è tecnicamente possibile tornare a produrre energia atomica in Europa, ma servono tempi lunghi – da 6-7 anni in avanti – e soprattutto un consenso sociale e politico chiaro». Non a caso il Governo Meloni ha deciso di quadruplicare la spesa per finanziare informazione pro nucleare a partire dal prossimo anno: c’è da augurargli buona fortuna, dato che ad oggi il 91% degli italiani non vuole una centrale nucleare vicino a casa, mentre il 93% pensa il Governo dovrebbe agire per la crescita delle energie rinnovabili.
È questo il contesto in cui il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, dopo aver vietato il fotovoltaico a terra – rinunciando a investimenti per 80 miliardi di euro, stima il Wwf – ha dichiarato che «il decreto Energia sulle Aree idonee (alle rinnovabili, ndr) si sbloccherà quando avremo garanzie che si possa produrre energia verde senza sacrificare terreno destinato all'agricoltura».
«Nel frattempo però – commentano da Legambiente – permette che in questi stessi territori vengano realizzate case, autostrade, data center e poli logistici, lasciando le rinnovabili, uniche tecnologie in grado di produrre energia verde e fermare la crisi climatica, ferme al palo. Basta ostacoli ideologici alle fonti rinnovabili: per aiutare il settore agricolo e il Made in Italy servono competenze e politiche intelligenti».
Ma nonostante gli ostacoli normativi e la disinformazione a frenarle, le rinnovabili avanzano: lo stesso non si può dire per la fonte nucleare, anche perché nei fantasiosi piani del Governo i primi impianti nucleari dovrebbero vedere la luce nel 2035 con 0,4 GW, quando da gennaio a settembre di quest’anno l’Italia ha installato – pur a passo di lumaca – 4,5 GW di nuovi impianti rinnovabili.