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Il Consiglio europeo si chiude tra chi chiede realismo e Madrid che indica la realtà: «Noi cresciamo il triplo dell’eurozona riducendo i gas serra»

Il vertice di Bruxelles non ha preso impegni sulla riduzione delle emissioni al 2040. E ha aperto a misure di «flessibilità» per non danneggiare le aziende del continente: l’ipotesi è di far scendere del 3-5% il target del taglio del 90% di CO2. Ma il premier spagnolo Sánchez: «L’agenda verde è uno dei principali motori della competitività, non un ostacolo ad essa, e noi lo stiamo vedendo anche in termini economici»
 |  Crisi climatica e adattamento

Niente cifre, conclusioni vaghe: il Consiglio europeo non smonta l’agenda verde comunitaria ma neanche prende impegni. Il vertice di Bruxelles a cui hanno preso parte i capi di Stato e di governo si è chiuso con un nulla di fatto, per quel che riguarda il tema della decarbonizzazione e del contrasto alla crisi climatica. Nel documento finale si legge che «la minaccia esistenziale rappresentata dai cambiamenti climatici è alla base dell’impegno dell’Unione a favore dell’accordo di Parigi e stimola la determinazione dell’Unione a sfruttare appieno il potenziale del rinnovamento industriale e della trasformazione delle sue economie, che sono necessari per creare le tecnologie pulite, i mercati, le industrie e i posti di lavoro di alta qualità del futuro». Si dice anche che la transizione deve essere «equa e giusta, pragmatica, efficiente in termini di costi e socialmente equilibrata».

Quanto all’obiettivo specifico di ridurre del 90% le emissioni di gas serra entro il 2040 rispetto ai livelli del 1990, come traguardo intermedio in vista del target «net-zero» del 2050, che sarebbe dovuto essere approvato in questa sede dopo il nulla di fatto al vertice dei ministri dell’Ambiente europei di metà settembre, i leader riuniti ieri a Bruxelles hanno siglato un testo in cui si richiamano due cose. La prima: «L’importanza di contribuire allo sforzo globale di riduzione delle emissioni in modo sia ambizioso sia efficiente sotto il profilo dei costi, in particolare definendo un livello adeguato di crediti internazionali di alta qualità». La seconda: la lettera inviata pochi giorni fa ai capi di Stato e di governo dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, in cui si apre al concetto di «flessibilità» per quel che riguarda gli obiettivi climatici.

La necessità di «flessibilità» è stata rimarcata da von der Leyen anche nel suo discorso per il Consiglio e unita al concetto di «pragmaticità» dal presidente António Costa: «Oggi abbiamo ribadito il nostro impegno nei confronti dell'accordo di Parigi e abbiamo anche convenuto sulla necessità di adottare una strategia pragmatica e flessibile. Per garantire che le ambizioni climatiche dell'Europa e la competitività della nostra economia e delle nostre industrie vadano di pari passo e non lascino indietro nessuno».  

Nei colloqui a porte chiuse si è discussa l’ipotesi di rivedere il target del 90% per ragioni di «realismo», per tutelare la competitività delle aziende europee di fronte a competitor che non devono rispettare analoghi vincoli, e di «sostenibilità»: non ambientale, ma di costi inerenti alle politiche verdi per cittadini e comparto industriale europei. Se i ministri dell’Ambiente europei avevano individuato delle percentuali minime e massime su cui ragionare per le scadenze intermedie del 2035 e 2040, lasciando la decisione finale ai capi di Stato e di governo, questi ieri hanno evitato di mettere cifre nero su bianco, rinviando la questione o al prossimo vertice in agenda a Bruxelles o addirittura a una riunione straordinaria sulla competitività che, come annunciato dal cancelliere tedesco Friedrich Merz (insieme alla nostra premier Giorgia Meloni tra i più critici con Green deal e in particolare con lo stop alle auto a benzina e gasolio dal 2035), si dovrebbe tenere il 12 febbraio del prossimo anno. Ovvero, dopo la Cop30 che si svolgerà a novembre in Brasile e a cui, originariamente, l’Ue avrebbe dovuto presentare i propri obiettivi climatici.

A Bruxelles lavorano ora a un accordo partendo da quanto scritto da von der Leyen nella lettera dei giorni scorsi in cui apriva al concetto di «flessibilità». L’idea è quella di prevedere tra il 3% e il 5% di margine al di sotto del 90% previsto nella proposta originaria della Commissione europea. La stessa von der Leyen, rispondendo alle pressioni ricevute da diversi governi europei in questi mesi, ha indicato la possibilità di esternalizzare fino al 3% dell’obiettivo del 90% acquistando crediti di carbonio da altre nazioni, anziché raggiungere tali riduzioni con misure interne. Nella sua lettera, la presidente della Commissione Ue ha aperto a un aumento dell’utilizzo dei crediti, scrivendo: «Parte dell’obiettivo - il 3% nella proposta della Commissione, che i ministri discuteranno ulteriormente - può essere raggiunto con crediti internazionali di alta qualità. Il nostro obiettivo interno (...) può essere inferiore al 90%, purché ciò sia compensato da riduzioni simili (...) al di fuori dell’Ue». Una soluzione già contestata dalle organizzazioni ambientaliste europee e che i governi vorrebbero ulteriormente modificare al ribasso, cioè alzando quella percentuale di crediti esterni al 5% in nome appunto del «realismo» e della «sostenibilità» delle nuove misure per cittadini e aziende.

In tutto questo, a Bruxelles si è fatta notare una voce fuori dal coro, quella del premier spagnolo Pedro Sánchez, il quale ha ricordato che le previsioni di crescita del suo Paese per quest’anno sono, secondo il Fondo monetario internazionale, quasi il triplo di quelle dell’intera zona euro. Il motivo? L’impegno profuso da Madrid nell’energia pulita. «A coloro che sostengono la riduzione dei diritti o lo smantellamento delle politiche climatiche, in Spagna, diciamo umilmente che l’agenda verde è uno dei principali motori della competitività, non un ostacolo ad essa. Lo sappiamo perché lo stiamo attuando e perché lo stiamo vedendo anche in termini economici nel nostro Paese», ha sottolineato il premier della Spagna: «Stiamo dimostrando che è possibile crescere e creare posti di lavoro, riducendo al contempo le emissioni di gas serra».

La realtà, di contro al realismo invocato da chi chiede, in nome della competitività, di smantellare le politiche europee per il clima.

Simone Collini

Dottore di ricerca in Filosofia e giornalista professionista. Ha lavorato come cronista parlamentare e caposervizio politico al quotidiano l’Unità. Ha scritto per il sito web dell’Agenzia spaziale italiana e per la rivista Global Science. Come esperto in comunicazione politico-istituzionale ha ricoperto il ruolo di portavoce del ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca nel biennio 2017-2018. Consulente per la comunicazione e attività di ufficio stampa anche per l’Autorità di bacino distrettuale dell’Appennino centrale, Unisin/Confsal, Ordine degli Architetti di Roma. Ha pubblicato con Castelvecchi il libro “Di sana pianta – L’innovazione e il buon governo”.