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Transizione ecologica e coesione sociale: la sicurezza dell’Ue passa dal coraggio di «soluzioni radicali»

Intervista all’europarlamentare Annalisa Corrado, responsabile Conversione ecologica del Pd, in occasione della Giornata dell’Europa
 |  Interviste

Non capita tutti i giorni di fare un’intervista seguendo in sottofondo la cronaca dal Vaticano, a fumata bianca avvenuta, in trepidante attesa per l’annuncio del nuovo papa, chiamato a prendere il posto del pontefice più ambientalista della storia – papa Francesco. Entrambi tifiamo l’outsider Zuppi, ma ad affacciarsi su piazza San Pietro è Robert Francis Prevost, che comunque potrebbe riservare più di una sorpresa positiva sul fronte della sostenibilità dello sviluppo. C’è bisogno di riferimenti morali forti per tenere la barra dritta: oggi si festeggia la Giornata dell’Europa, ma a 75 anni dalla dichiarazione Schuman, pace, unità e sostenibilità sono messe a rischio anche nel cuore del Vecchio continente.

Intervista

Ieri l’Europarlamento ha abbassato lo status di protezione del lupo, mentre continuano ad avanzare le iniziative – come il pacchetto Omnibus – per semplificare le norme sulla transizione ecologica: la presidente von der Leyen continua a difendere il Green deal, affermando che «l’ecologia fa parte dell’identità europea», ma il timore è quello che si concretizzi una brutale deregulation. Cosa ne pensa?

«Il rischio è molto alto e si vede di fatto su tutti i dossier. Fortunatamente c’è stato un patto di maggioranza per arginare il rischio che la semplificazione diventi deregolamentazione. Socialisti e Verdi sono riusciti a convincere il Ppe: se vuole aperture di flessibilità bisogna mettere mani alle normative già chiuse solo in modo chirurgico, senza farne cadere l’impianto. Ad esempio, ieri l’Europarlamento ha deciso di dare più tempo alle case automobilistiche sulle multe in caso di mancato rispetto della riduzione delle emissioni di CO2, ma l’estrema destra di Ecr e Patrioti aveva avanzato emendamenti che sarebbero arrivati ad abbattere l’obiettivo principale, ovvero quello dello stop ai motori non a emissioni zero al 2035. Se il Ppe li avesse approvati, noi avremmo votato contro la proposta della Commissione Ue; invece il Ppe ha mantenuto la linea, e a cadere sono stati gli emendamenti dell’estrema destra.

In sintesi, la sensazione è che ci sia meno ambizione sul fronte della transizione ecologica rispetto alla scorsa legislatura: il rischio che dietro la semplificazione si nasconda la deregolamentazione è dietro ogni angolo. Dobbiamo vigilare costantemente, dossier per dossier. Preoccupa ad esempio l’idea di abbassare il livello d’ambizione sugli obiettivi climatici al 2040, perché si adombra la possibilità di raggiungere -90% di emissioni usando anche strumenti come la Ccs o gli assorbimenti; una linea che non può passare, anche in vista della Cop30. Ma ci sono pure segnali di speranza, come il Clean industrial deal dove sta incidendo la posizione della commissaria Ribera».

Guardando al bicchiere mezzo pieno, la Commissione ha proposto una roadmap per dire addio a combustibili fossili e nucleari russi entro il 2027, ma in Ue e soprattutto in Italia l’import di metano dalla Russia è cresciuto anche nel 2024. È possibile liberarci da questa dipendenza?

«È possibile innanzitutto facendo sul serio sulle energie rinnovabili, che rappresentano la soluzione definitiva, e dunque sull’elettrificazione dei consumi. Il resto passa dall’import di gas da altri Paesi, che in molti casi non sono comunque paladini dei diritti umani e civili; ricordiamo che lo stesso Donald Trump sta facendo passare la sua guerra commerciale dal Gnl. Prima ci liberiamo dal gas fossile meglio è, a partire chiaramente da quello di Putin».

Ieri la Commissione Ue ha avanzato una nuova proposta di contro-dazi da portare sul tavolo della trattativa con Donald Trump. Si tratta dell’approccio giusto?

«In primo luogo è bene che l’approccio sia europeo: muoversi in veste di singoli Paesi, come la presidente Meloni che cerca l’interlocuzione diretta, non favorisce noi – perché all’interno del mercato unico è di fatto impossibile agire in solitaria – e indebolisce al contempo l’azione europea. I contro-dazi sono un elemento da mettere sul tavolo della negoziazione, ma soprattutto è necessario investire sulle filiere industriali giuste per riposizionarci e acquisire davvero un’autonomia strategica: un approccio che valeva già nei confronti della Cina, come vale oggi rispetto agli Stati Uniti».

La difesa militare è la nuova priorità dell’Europa, eppure senza investimenti sulla mitigazione e l’adattamento climatico non c’è sicurezza – neanche economica – per i cittadini. Pensa che questa consapevolezza sia ancora radicata a Bruxelles?

«Noi continuiamo a ripeterlo in ogni sede, e l’impostazione iniziale sta già cambiando. Anche perché dobbiamo fare i conti con risorse scarse, dato che le spese in armi previste dal ReArmEu sono a debito. Ogni volta che parliamo di difesa, dobbiamo farlo in ottica europea: investimenti comuni, priorità condivise, interoperabilità dei sistemi, alleggerendo l’impatto delle spese sui singoli bilanci nazionali. In caso contrario, ovvero permettere che 27 Stati membri si armino ognuno in base alle proprie possibilità, rischia di alimentare asimmetrie pericolose: serve unità per alimentare la pace.

Senza dimenticare che l’Europa e l’area mediterranea in particolare sono un hotspot della crisi climatica in corso, dunque la nostra preparedness deve essere incentrata in primo luogo sulla capacità di affrontare eventi meteo sempre più estremi, dalla siccità alle alluvioni, che rappresentano un pericolo costante alla sicurezza dei cittadini».

Recuperare lo spirito del New deal, nell’ottica originaria delineata da Roosevelt, significa anche investire in sicurezza economica per i cittadini, liberarli dalla paura dell’indigenza e della disoccupazione.

«Senza coesione sociale, ogni problema diventa motivo di tensione: la vera sicurezza passa innanzitutto da autonomia strategica, decarbonizzazione, istituzioni europee più forte, lotta alle disuguaglianze e all’impoverimento. Quando le persone sono in estrema difficoltà, e in parallelo dilaga l’analfabetismo funzionale, le soluzioni apparentemente semplici sono quelle che attecchiscono e ti fanno sentire compreso. Peccato siano anche quelle che si riducono a individuare un nemico su cui scaricare la frustrazione, anziché mettere in campo soluzioni reali. Tanto più che la caccia al nemico mette nel mirino proprio le categorie sociali più fragili».

Oggi è la Giornata dell’Europa, nata per celebrare la pace e l’unità del Vecchio continente: valori adesso minacciati dall’esterno – a partire dalla Russia di Putin – ma anche dalla crescita dell’estrema destra col suo autoritarismo. Come resistere?

«Si resiste continuando ad avere il coraggio di proporre soluzioni radicali, cambiamenti importanti e non pannicelli caldi. Ammiccare all’estrema destra o tenere il piede in due staffe non funziona: si pensi al giusto sostegno alla popolazione ucraina, mentre quella di Gaza è abbandonata a sé stessa. Se l’Ue non riesce ad avere il coraggio di avanzare con decisione verso il sogno delineato dai padri fondatori, il risultato non è una stasi ma un rapido indietreggiamento. Questo è il momento storico per alzare l’ambizione, non di tenerla congelata perché non abbiamo i numeri. Chi può lo deve dire forte». 

Luca Aterini

Luca Aterini, toscano, nasce settimino il 1 dicembre 1988. Non ha particolari talenti ma, come Einstein, si dichiara solo appassionatamente curioso: nel suo caso non è una battuta di spirito. Nell’infanzia non disegna, ma scarabocchia su fogli bianchi un’infinità di mappe del tesoro; fonda il Club della Natura, e prosegue il suo impegno studiando Scienze per la pace. Scrive da sempre e dal 2010 per greenreport, di cui è oggi caporedattore.