Rinnovabili, i Ppa da parte di enti pubblici e utility possono abbassare le bollette? Solo in parte
Come abbassare il costo dell’energia elettrica, che grava sulle tasche dei cittadini quanto delle imprese italiane? Siamo tornati a parlarne con Luisa Loiacono, ricercatrice all'Università di Ferrara, e Andrea Alberizzi – docente a contratto per l’Università di Ferrara e ricercatore del centro di Ricerca sul sistema energetico (Rse).
Intervista
L’Agenzia europea dell’ambiente (Eea) ha pubblicato un report che documenta come raggiungere gli obiettivi 2030 sulle rinnovabili significhi, per l’Italia, poter tagliare di due terzi il costo all’ingrosso dell’elettricità rispetto al 2023. È un trend in corso, tant’è che nei momenti di maggior produzione il Pun arriva già a zero o quasi. Perché questi benefici faticano a emergere anche in bolletta?
«Innanzitutto va sottolineato che la spesa per la materia energia per i clienti vulnerabili incide per circa il 55% sul costo totale della bolletta. Ciò significa che, anche in caso di un calo del 66% del prezzo dell’energia all’ingrosso, la riduzione si applicherebbe solo su quella parte, e quindi l’effetto complessivo sulla bolletta finale sarebbe molto più contenuto.
Un altro elemento rilevante riguarda le spese di bilanciamento della rete, sostenute da Terna e inserite in bolletta all’interno della voce ‘energia e dispacciamento’. Queste spese non seguono l’andamento del Pun: al contrario, un sistema con un’elevata penetrazione di rinnovabili risulta più complesso da bilanciare, e ciò può portare a un aumento dei costi di dispacciamento.
Va poi considerata la componente fissa della bolletta, in particolare i costi di commercializzazione e vendita, che non dipendono dal prezzo dell’energia. Da una nostra analisi recente (non ancora pubblicata) emerge come, dopo l’inizio della guerra Russia-Ucraina nel 2022, tali componenti siano aumentate sensibilmente e siano rimaste elevate anche quando il Pun ha iniziato a scendere. Questo ha contribuito a mantenere alto il prezzo dell’energia percepito in bolletta, attenuando i benefici del calo del mercato all’ingrosso».
Nella relazione annuale Arera, l’Authority documenta che per i clienti domestici i costi dell’elettricità dipendono per il 55% dalla componente energia, per il 17% dai costi di rete, per il 27% da oneri, imposte e tasse, e quest’ultima voce è cresciuta del 28% nell’ultimo anno. Potremmo intervenire spostando alcuni di questi oneri sulla fiscalità generale, dunque in senso progressivo, come suggerisce Besseghini?
«La proposta di spostare una parte dei costi dalla bolletta alla fiscalità generale non è nuova. Occorre però distinguere bene la natura delle diverse voci. Una parte dei costi riguarda la manutenzione della rete e i costi amministrativi: si tratta di spese strettamente connesse all’erogazione del servizio elettrico. Per questo motivo non avrebbe senso finanziarle con la fiscalità generale, poiché la bolletta rappresenta il corrispettivo di un servizio, e quindi è corretto che i costi legati all’infrastruttura ricadano direttamente sugli utenti che ne usufruiscono.
Diverso è il caso delle componenti che riflettono scelte di politica industriale ed energetica, come gli incentivi alle fonti rinnovabili che rientrano negli oneri di sistema. In questo ambito, in altri Paesi si sta già discutendo di una redistribuzione dei costi. Nel Regno Unito, ad esempio, uno studio indipendente ha proposto di rimuovere le cosiddette levies ambientali e sociali dalle bollette elettriche e di trasferirle alla fiscalità generale, con l’obiettivo di ridurre la pressione sulle famiglie e accelerare la diffusione delle tecnologie rinnovabili. L’idea è che costi connessi a obiettivi di interesse collettivo, come la decarbonizzazione, debbano essere sostenuti dall’intera fiscalità e non soltanto dai consumatori di elettricità.
In Italia una misura di questo tipo potrebbe avere un impatto significativo. Secondo Arera, gli oneri di sistema incidono oggi per circa il 10% del totale della bolletta elettrica domestica. All’interno di questa voce rientrano per la maggior parte i costi per il sostegno alle fonti rinnovabili, seguite da costi minori come la messa in sicurezza del nucleare e i regimi tariffari speciali, il finanziamento della ricerca di sistema e altri interventi di interesse generale per il settore elettrico. È dunque evidente che, se anche solo una parte di questa componente fosse trasferita sulla fiscalità generale, si otterrebbe un alleggerimento immediato della bolletta, in particolare per le famiglie vulnerabili».
Mentre Bankitalia dichiara in audizione alla Camera che abbandonare la transizione energetica “non porterebbe vantaggi né sul piano ambientale né su quello economico”, il Governo sta facendo slittare ancora il decreto sulle Aree idonee con un ricorso al Consiglio di Stato. Si ritardano dunque i benefici sui prezzi che, anche in base all’analisi Eea, le rinnovabili sono in grado di portare?
«Ad oggi in Italia sono installati circa 80 GW di impianti da fonti rinnovabili. L’obiettivo fissato dal Pniec al 2030 è raggiungere i 150 GW: siamo quindi poco oltre la metà del percorso e risulta evidente la necessità di ulteriori investimenti.
Occorre però tenere conto anche dell’impatto ambientale: siamo sicuri che le emissioni evitate grazie alle rinnovabili abbiano un impatto maggiore rispetto alla trasformazione di vaste aree naturali per ospitare impianti eolici o fotovoltaici? Forse varrebbe la pena investire anche nello sviluppo di tecnologie più efficienti e meno invasive, capaci di sfruttare le risorse naturali riducendo al minimo il consumo di suolo.
Un’altra leva fondamentale potrebbe essere la diffusione delle comunità energetiche, che permetterebbero a famiglie e cittadini di autoprodurre l’energia necessaria – ad esempio tramite pannelli solari domestici – riducendo la dipendenza dalle grandi infrastrutture.
Va inoltre considerato che dal 2025 l’Italia ha introdotto il Pun Index, che sostituisce il prezzo unico nazionale con prezzi zonali. Questo significa che, senza un adeguato potenziamento della rete di trasporto, l’aumento degli impianti rinnovabili in una determinata area potrebbe ridurre i prezzi dell’energia solo localmente, senza effetti sul resto del Paese.
Per questo motivo è necessario ripensare il modello di mercato non soltanto in funzione dell’aumento delle rinnovabili, ma integrando anche le esigenze di rete, la flessibilità del sistema e un bilanciamento equilibrato tra benefici ambientali e tutela del territorio».
Per voi il meccanismo del prezzo marginale è qui per restare, si va verso un predominio di contratti Ppa/Cfd rispetto ai volumi scambiati a breve termine, oppure ancora verso una soluzione con un mercato dell’elettricità dedicato alle tecnologie convenzionali – quelle che utilizzano gas ad esempio – e un mercato per le tecnologie rinnovabili?
«Segmentare il mercato elettrico tra tecnologie convenzionali e rinnovabili può sembrare una soluzione logica, ma nella pratica è molto complesso e poco attraente in una fase di transizione energetica. Una tale divisione ridurrebbe infatti gli incentivi per le rinnovabili, che non sarebbero più retribuite al prezzo marginale dettato dagli impianti convenzionali. Introdurre un doppio mercato rischierebbe di avere l’effetto opposto: rallentare gli investimenti invece che accelerarli. Nel lungo periodo, un sistema completamente decarbonizzato non avrebbe lo stesso problema di convivenza tra tecnologie convenzionali e rinnovabili.
Un’alternativa potrebbe essere rafforzare gli strumenti che già conosciamo. In primo luogo, le comunità energetiche che creano reti locali e riducono la dipendenza dal mercato all’ingrosso. In secondo luogo, un’efficienza maggiore nei mercati locali e nei servizi di bilanciamento: non solo il Mercato del Giorno Prima e il Mercato Infragiornaliero, ma anche il mercato di bilanciamento a livello di distribuzione. Quest’ultimo è destinato a diventare sempre più cruciale con l’espansione delle fonti non programmabili, perché assicura che domanda e offerta si incontrino in tempo reale e che le risorse flessibili possano intervenire per stabilizzare il sistema.
Secondo la Commissione europea, il modello del prezzo marginale rimane in vigore in modo da garantire segnali di prezzo, ma va affiancato da una più ampia diffusione dei contratti di lungo termine – come Ppa e Cfd – che offrono stabilità sia ai produttori sia ai consumatori».
Il recente attentato terroristico contro un progetto eolico in Mugello è tornato a sollecitare l’urgenza di trovare una formula tecnico/giuridica capace di far compartecipare comunità ed enti locali ai benefici indotti da questi impianti utility scale: quale ritiene possano essere le migliori?
«L’attentato in Mugello dimostra chiaramente che, senza un reale coinvolgimento delle comunità locali, i grandi impianti rinnovabili rischiano di generare conflitto sociale. La strada da seguire è quella che unisce l’accettabilità sociale alla redistribuzione dei benefici. Questo può avvenire attraverso diversi strumenti: le Comunità energetiche rinnovabili, ad esempio, permettono ai cittadini e agli enti locali di diventare parte attiva del sistema energetico, condividendo direttamente l’energia prodotta e beneficiando degli incentivi»
Comuni e Regioni – anche tramite loro partecipate nei servizi pubblici locali – potrebbero attivare Ppa per acquistare energia a prezzi convenienti e poi rivenderla alle utenze sul loro territorio?
«Attivare Ppa da parte di Comuni e Regioni, anche tramite società partecipate nei servizi pubblici locali, può essere uno strumento utile per ridurre i costi energetici delle utenze pubbliche sul territorio, in particolare scuole, ospedali e uffici comunali. In questo ambito, gli enti locali hanno già oggi la possibilità di stipulare contratti di lungo termine per coprire i propri consumi istituzionali, e alcune esperienze in Italia si stanno sviluppando in questa direzione.
Diverso è il discorso della rivendita diretta dell’energia ai cittadini: al momento non esiste una cornice normativa chiara che consenta agli enti locali di operare come fornitori sul mercato retail. Le società partecipate possono agire in qualità di operatori energetici, ma devono farlo rispettando le regole di concorrenza e la regolazione di Arera, senza corsie preferenziali rispetto ad altri operatori privati».
Riguardo alle legittime quanto autorevoli opinioni espresse dagli intervistati, è utile ricordare che la linea editoriale di greenreport segue le indicazioni dell’Ipcc per le quali non esistono «tecnologie più efficienti e meno invasive» delle fonti rinnovabili per rispettare gli obiettivi di decarbonizzazione. È invece certamente necessario favorire la massima partecipazione delle comunità locali nell’iter autorizzativo dei nuovi impianti rinnovabili, ma questo di per sé non è purtroppo sufficiente a evitare sindromi Nimby e Nimto come mostra il caso dell’eolico in Mugello, per il quale è stata attivata un’inchiesta pubblica con conseguenti, molteplici incontri con la cittadinanza a partire dal 2019. Una volta realizzato, peraltro, l'impianto - che ha già avuto il via libera da Regione Toscana e presidenza del Consiglio dei ministri (epoca Draghi) oltre al sostegno dei Comuni sede d'impianto, Vicchio e Dicomano - avrà un beneficio netto sotto il profilo ambientale oltre che energetico: “il sacrificio di qualche albero per evitare un enorme sacrificio di alberi: la capacità di assorbimento parallela e corrispettiva all’energia pulita che si metterà in circolo con il parco eolico di Villore corrisponde, infatti, all’assorbimento di CO2 di circa 1.300.000 alberi”, per dirla con le parole usate su greenreport da Fausto Ferruzza, presidente Legambiente Toscana e responsabile Paesaggio di Legambiente nazionale.