Skip to main content

Senza la Cina non c’è Green deal, ma non sarà la manifattura a riportare i posti di lavoro in Ue

Il segreto cinese per mantenere bassi i costi di batterie e pannelli fotovoltaici sta nell’automazione: la terziarizzazione è inevitabile, ma c’è differenza tra basarla su turismo o alto valore aggiunto
 |  Green economy

«Per l’Europa, che dipende dalle importazioni di gas e petrolio, la strategia verde è fondamentale per raggiungere l’indipendenza energetica […] nel lungo periodo il cambiamento del nostro sistema energetico è condizione della resilienza del nostro sistema economico e della nostra autonomia strategica».

Non è, purtroppo, cosa usuale trovare come editoriale sul più importante quotidiano italiano – il Corriere della Sera – un’analisi nei toni offerti oggi dall’economista Lucrezia Reichlin col suo articolo Green deal, il dilemma sulla Cina. Si tratta peraltro di un problema puramente informativo, in quanto le principali istituzioni economiche sono già pienamente d’accordo: solo nelle ultime settimane sono stati Fmi, Ocse e Bankitalia (con a coda la Commissione Ue, nelle raccomandazioni del suo pacchetto di primavera) a suggerire all’Italia la necessità di accelerare sulla transizione ecologica, a partire dalla diffusione dell’energia rinnovabile.

Resta il problema di fondo, che è di natura geopolitica oltre che economica. Il tradizionale alleato atlantico, ovvero gli Usa guidati oggi da Donald Trump, ha tutto l’interesse a mantenere l’Europa legata alla schiavitù dei combustibili fossili: oltre il 50% dei beni esportati dagli Usa nel Vecchio continente rientra in questa filiera, da qui l’allergia di The Donald al Green deal in ogni sua forma.

La transizione ecologica, d’altra parte, come nota anche Reichlin non può fare a meno della Cina: «Secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia, la Cina rappresenta oltre l’85% della fornitura globale di materie rare, circa il 60% del litio e circa il 90% della grafite anodica mondiale. Senza la Cina, non avremmo energia solare a prezzi accessibili o veicoli elettrici competitivi. In altre parole, senza la Cina la transizione è impossibile. Il suo predominio nella filiera delle energie rinnovabili è il risultato di una scelta strategica lungimirante che ha portato allo sviluppo di un ecosistema, che comprende tecnologia, capacità produttiva su larga scala e accesso a materie prime critiche […] Il disaccoppiamento dalla Cina renderebbe il Green Deal europeo irrealizzabile. Gli analisti di Bloomberg avvertono che i pannelli solari e le componenti per veicoli elettrici potrebbero aumentare i costi dal 30 al 50% se i Paesi occidentali la escludessero dalle loro filiere. L’impatto sarebbe ingente in Europa, ma soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, che già faticano a finanziare infrastrutture verdi e dalla cui capacità di elettrificazione dipende la sorte del cambiamento climatico globale».

Rinsaldare l’alleanza geopolitica con la Cina è dunque una necessità per l’Ue, sia per trovare una maggiore autonomia strategica dagli Usa, sia per portare avanti la decarbonizzazione della propria economia. Ma non dobbiamo ripetere gli stessi errori. La natura stessa del salto tecnologico riduce i rischi – una volta importato un barile di petrolio non puoi che bruciarlo, mentre un pannello fotovoltaico resta operativo per un ventennio e poi puoi riciclarlo –, ma sarebbe miope guardare alla Cina senza provare a copiarne (in meglio) il modello di sviluppo economico.

Perché dunque pannelli fotovoltaici e batterie sono così economiche nel Paese del dragone? A rispondere è Hannah Ritchie, data scientist dell’Università di Oxford nonché volto del celebre portale Our world in data: «La Cina domina questi mercati principalmente perché ha elaborato una strategia industriale a lungo termine per queste tecnologie e, di conseguenza, ha perfezionato una catena di approvvigionamento moderna e ottimizzata».

automazione cina 1

Prendendo come caso-scuola quello delle batterie – tre quarti di quelle prodotte nel mondo è a marchio cinese –, il principale fattore che permette alla Cina di mantenere al minimo i costi di produzione è l’automazione industriale: «I costi del lavoro di BYD sono inferiori non a causa di salari molto più bassi, ma grazie agli elevati livelli di automazione. Le fabbriche BYD possono avere anche solo 50 lavoratori per gigawattora (GWh) di produzione, rispetto ai 233 lavoratori di altre fabbriche», argomenta Ritchie.

Gli Usa impiegano un numero di lavoratori per GWh sei volte superiore rispetto alla Cina, e in Europa a questo problema si somma quello relativi ai costi dell’energia, che assumono una dimensione paradigmatica in Italia a causa dell’alta dipendenza del nostro Paese dal metano fossile.

automazione cina 2

«La Cina ha investito molto nell'automazione, il che significa – continua Ritchie – che molti processi vengono eseguiti con pochissimo apporto umano. Questo è un altro aspetto da tenere a mente quando si considera la possibilità di "riportare a casa i posti di lavoro nel settore manifatturiero". C'è sicuramente margine di manovra, ma è in contrasto col fatto che i bassi costi spesso si basano sull'automazione, non sul lavoro umano. Soprattutto con la crescita dell'intelligenza artificiale, alcuni posti di lavoro nel settore manifatturiero potrebbero essere sempre più vulnerabili».

Le tendenze in corso in Cina sembrano dunque confermare che tutte le economie, raggiunto un certo stadio di sviluppo, tendono a basarsi sui servizi anziché sul lavoro in fabbrica.

«In un'economia più prospera, la domanda si sposta verso servizi come sanità, istruzione, intrattenimento e tempo libero. Il restante settore manifatturiero si sposta dai beni ad alta intensità di lavoro a prodotti che richiedono competenze e tecnologie più specializzate – osserva l’economista David Waldron, che sul tema ha prodotto un grafico che ha conosciuto un ampio successo in rete per la sua capacità di sintesi – Poiché la terziarizzazione sembra essere una componente inevitabile del progresso economico, è improbabile che tentare di tornare indietro con dazi commerciali produca i risultati desiderati. Gli economisti raccomandano invece investimenti pubblici nelle comunità in declino».

automazione cina 3

Infatti, c’è terziarizzazione e terziarizzazione. L’Italia, ad esempio, può seguire la strada indicata dalla presidente Meloni, che presenta il turismo come «uno dei motori trainanti» dell’economia: il risultato è quello che stiamo vivendo, considerando che dal 2000 al 2024 il Pil in Italia è aumentato del 9,3% in termini reali, mentre nello stesso periodo la crescita è stata di circa il 30% in Germania e Francia e di oltre il 45% in Spagna. Nello stesso periodo il numero degli occupati è aumentato del 16%, in linea con Francia e Germania, ma questa crescita è stata sostenuta soprattutto dalle attività dei servizi a basso contenuto tecnologico e ad alta intensità di lavoro – ovvero nei settori a bassa produttività, come il turismo – e non compensata dall’espansione delle attività a produttività elevata: come conseguenza, il Pil per occupato in Italia si è ridotto del 5,8%, mentre in Francia, Germania e Spagna è cresciuto di circa l'11-12%.

L’altra strada possibile è quella d’investire in cultura, per rendere i cittadini in grado di guidare la transizione ecologica e industriale anziché subirla. Il divario da colmare è enorme, come ricorda l’economista ambientale Massimiliano Mazzanti, perché in Italia gli investimenti in R&S sono fermi all’1,37% del Pil contro il benchmark internazionale rappresentato dalla Corea del Sud, che arriva a sfiorare il 5%, mentre in Cina sono già al 2,68% del Pil (in crescita dell’8,3% solo dal 2023 al 2024). Anche in questo caso, i divari si toccano con mano: secondo l’ultima indagine Ocse-Piaac, il 70% circa degli adulti italiani è senza competenze minime per affrontare il mondo contemporaneo.

analfabetismo funzionale ocse piaac

Luca Aterini

Luca Aterini, toscano, nasce settimino il 1 dicembre 1988. Non ha particolari talenti ma, come Einstein, si dichiara solo appassionatamente curioso: nel suo caso non è una battuta di spirito. Nell’infanzia non disegna, ma scarabocchia su fogli bianchi un’infinità di mappe del tesoro; fonda il Club della Natura, e prosegue il suo impegno studiando Scienze per la pace. Scrive da sempre e dal 2010 per greenreport, di cui è oggi caporedattore.