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«Menti fossilizzate»: per spiegare l’amore di Trump per i combustibili fossili non serve lo psicologo ma un economista

L’analisi di Paul Krugman sul declino dell’industria del carbone statunitense e sulla maggiore competitività in termini di costi di eolico e solare
 |  Nuove energie

Paul Krugman, oltre ad essere un autorevole economista, è una penna raffinata, che si muove in costante equilibrio sui fili intrecciati della sottile ironia e delle bordate frontali nei confronti delle tesi a suo giudizio fallaci, che procede senza mai deragliare dal rigore analitico, arrivando alla meta di conclusioni e risultati tanto lampanti che alla fine non ti spieghi come altri non possano vederli e anzi arrivarci da soli. L’ultimo esempio di tutto ciò è l’articolo che ha scritto ieri sulla piattaforma Substack. Già il titolo è decisamente eloquente: «Combustibili fossili e menti fossilizzate». È subito chiaro chi sta prendendo di mira? Ok, è un cittadino statunitense, è intuibile chi sia il bersaglio polemico, ma la prende alla larga. Inizia a scrivere: «Sono appena tornato dai Paesi Bassi, famosi per i loro pittoreschi mulini a vento. Ma l’energia eolica in Olanda è più di una curiosità storica. Ci sono anche moderne turbine eoliche quasi ovunque si guardi, sia sulla terraferma che al largo. E il terreno è ricoperto di uccelli e balene morti».

Dice sul serio? Ironizza? Sta prendendo in giro chi prende in giro gli impianti eolici definendoli sarcasticamente «mulini a vento» più dannosi che utili? Intanto, il secondo indizio di chi sia la vittima argomentativa è stato messo in campo.

La penna, o se vogliamo essere pignoli la tastiera, continua a muoversi: «Ok, non proprio. L’energia eolica è, infatti, molto più pulita e sicura rispetto alla combustione di combustibili fossili. E personalmente mi piace la vista delle turbine eoliche. Dopo tutto, apprezzo i comfort della civiltà moderna e trovo rassicurante vedere che l’energia necessaria per fornire tali comfort viene generata senza emissioni nocive».

Ed ecco che smette di girarci intorno, va al sodo di una questione che non ha a che fare solo col comfort e gli stati d’animo, ma con l’economia e con la politica: «Donald Trump, come tutti sanno, odia l’energia eolica e ama il carbone. Entrambe le passioni sono profondamente irrazionali. Eppure stanno influenzando la politica. Trump sta facendo del suo meglio per eliminare l’energia eolica, arrivando persino a ordinare la sospensione dei lavori su un parco eolico quasi completato al largo della costa del Rhode Island. (Orsted, la società danese dietro al progetto, ha fatto causa e ottenuto la revoca dell’ordine di sospensione dei lavori). E l’amministrazione sta cercando di rilanciare il carbone, aprendo terreni federali all’estrazione mineraria, eliminando i limiti di inquinamento e fornendo centinaia di milioni di dollari in sussidi. Ma perché?». Già, perché? Ma non c’è da andare a cercare troppo lontano: Krugman è un’economista, gira che ti rigira, se si occupa di una questione, è perché in un modo o nell’atro, di mezzo ci stanno i soldi. E le dichiarazioni d’amore per il carbone, ma anche quelle per il petrolio e il gas e tutto ciò che si può estrarre dal sottosuolo al grido di «drill, baby, drill», alla fine riguarda questo: affari. Che anche se vanno male, se ti interessa quello specifico settore, vanno rilanciati. Anche andando contro tutto quel che ti dice la realtà dei fatti. «I funzionari dell’amministrazione vorrebbero far credere che l’estrazione del carbone sia un’industria economicamente redditizia che è stata sabotata dai liberali. Lunedì Chris Wright, segretario all’energia, ha dichiarato – con uno strano cliché da guerra culturale ormai superato – che il carbone è “fuori moda tra gli amanti dello chardonnay di San Francisco, Boulder, Colorado, e New York City”. La verità, tuttavia, è che il carbone è un’industria in declino per ottime ragioni, ed è improbabile che l’anti-wokeismo riesca a rilanciarla. Il carbone ha smesso di essere una fonte significativa di posti di lavoro decenni fa».

E qui gli artifizi retorici possono farsi da parte, allusioni e più o meno sottili critiche possono cedere il passo alla fredda analisi, qui entrano in gioco i dati: «Sono rimasti solo circa 40.000 minatori di carbone. Nel caso ve lo stiate chiedendo, i vigneti e le cantine danno lavoro a circa 130.000 persone, tre volte di più rispetto all'industria del carbone. Dove sono finiti tutti i posti di lavoro nel settore del carbone? Le risposte potrebbero sorprendervi». Da bravo economista, Krugman pubblica anche un grafico che mostra che tra il 1950 e gli anni 2000 «si è verificato un calo epocale dell’occupazione nel settore carbonifero, che è passata da mezzo milione di minatori a circa 80.000». E da bravo economista fa notare che questo calo dell’occupazione non rifletteva un allontanamento dell’economia dal carbone: «Infatti, l’uso del carbone per la produzione di energia elettrica è aumentato costantemente durante tutto il periodo, raggiungendo il picco nel 2008».

Inevitabile la domanda: cosa è successo quindi a tutti i posti di lavoro nel settore del carbone? «In sostanza, i lavoratori sono stati sostituiti prima dalle gigantesche pale meccaniche (estrazione a cielo aperto), poi dagli esplosivi utilizzati per far saltare le cime delle montagne, esponendo il carbone sottostante. Grazie a queste tecniche, nel 2008 le aziende carbonifere sono state in grado di produrre il doppio del carbone rispetto al 1950, impiegando l’80% di lavoratori in meno».

Krugman sottolinea che il carbone è entrato in una fase di costante flessione dal 2008 in poi. Ma, sempre da bravo economista che ricorre ai grafici per mostrare fatti altrimenti non altrettanto evidenti, evidenzia anche che in una prima e non troppo breve fase il carbone è stato sostituito principalmente, non dalle energie rinnovabili, ma dal gas naturale, diventato economico e abbondante grazie all’aumento del fracking. «Negli ultimi anni, l’energia solare ed eolica sono finalmente diventate fonti energetiche importanti. Ma il motivo per cui sono cresciute rapidamente mentre il carbone è diminuito non è che la classe benestante consideri il carbone fuori moda. È semplicemente perché il carbone non è più competitivo in termini di costi, mentre l’eolico e il solare lo sono. Inutile dire che Trump e compagni non riconosceranno questi fatti. Potrebbero persino non esserne consapevoli. Nel suo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni unite, Trump ha dichiarato che i cinesi vendono molte turbine eoliche al resto del mondo, “ma le usano a malapena”». E qui, messe sul tavolo le cifre che doveva mettere, torna l’ironia, e commenta per iscritto con un semplice: «Ehm...». E poi lascia parlare un grafico. Che mostra che questo «malapena» della Cina corrisponde a 521.746 MW di capacità installata (+18% su base annua ’23-’24), contro i 153.152 MW degli Stati Uniti (con 0% di aumento su base annua).

La conclusione, semplice, pulita: «Per tutti noi, la cosa importante da capire è che nessuna delle giustificazioni addotte per promuovere il carbone ha senso. Non si tratta di salvare posti di lavoro: l’estrazione del carbone come stile di vita è scomparsa decenni fa, non perché i liberali che sorseggiano chardonnay la disprezzassero, ma perché le aziende hanno sostituito i minatori con macchine ed esplosivi. Non si tratta di ridurre i prezzi dell’energia: cercare di mantenere in vita il carbone renderà l’energia più costosa, non meno». E una chiosa, che non poteva lasciare dentro la penna/tastiera: «Si tratta in realtà di una guerra culturale. Cercare di riportare in auge il carbone significa solo voler sconfiggere i liberali. E se questo danneggia l’ambiente, beh, dal punto di vista del Maga è un vantaggio».

 

Simone Collini

Dottore di ricerca in Filosofia e giornalista professionista. Ha lavorato come cronista parlamentare e caposervizio politico al quotidiano l’Unità. Ha scritto per il sito web dell’Agenzia spaziale italiana e per la rivista Global Science. Come esperto in comunicazione politico-istituzionale ha ricoperto il ruolo di portavoce del ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca nel biennio 2017-2018. Consulente per la comunicazione e attività di ufficio stampa anche per l’Autorità di bacino distrettuale dell’Appennino centrale, Unisin/Confsal, Ordine degli Architetti di Roma. Ha pubblicato con Castelvecchi il libro “Di sana pianta – L’innovazione e il buon governo”.