Verdi di rabbia. Il Governo Meloni attacca ancora il Green deal, ma la transizione ecologica continua ad accelerare nel mondo perché conviene
Com’è ormai consuetudine – l’ultima volta era stata direttamente all’Assembla generale dell’Onu – ieri la presidente del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni, è tornata ad attaccare il Green deal durante le sue comunicazioni al Senato per il Consiglio europeo in agenda oggi.
Si tratta di una retorica molto in voga in tutto il mondo tra i partiti d’estrema destra, da Donald Trump a scendere, che sta influenzando (ahinoi) con efficacia il dibattito politico nazionale ed europeo. Smantellare le politiche sulla green economy rappresenta infatti una risposta alle pressioni dell’estrema destra, che dopo i migranti ha individuato negli ambientalisti il nuovo nemico antropologico; del resto è più facile rispondere alla legittima frustrazione dei cittadini – che in Italia hanno un salario reale oggi più basso del 1990 – cavalcando le paure verso il necessario cambiamento del modello economico dominante, anziché andare a trovare le risorse lì dove sono disponibili (i 3.600 europei più ricchi hanno la stessa ricchezza dei 181 milioni più poveri).
«Noi vogliamo abbandonare quell’approccio ideologico che ha caratterizzato la stagione del Green deal, per abbracciare un pragmatismo serio e ben ancorato al principio di neutralità tecnologica», questo il mantra ripetuto ieri, quando Meloni ha frenato su tutta la linea.
In merito alla revisione della legge europea sul clima, per raggiungere al 2040 un taglio alle emissioni del -90% rispetto al 1990 sarebbe possibile «sino almeno al 5% (tanto degli obiettivi a livello Ue, tanto degli obiettivi nazionali), i cosiddetti crediti internazionali», quando l’Italia dovrebbe innanzitutto preoccuparsi di accelerare, dato che dal 1990 al 2023 le emissioni nazionali sono calate solo del 26,4% a fronte del -37% europeo (nello stesso periodo, il Pil Ue è cresciuto del 68%).
«La seconda condizione che poniamo – argomenta Meloni – è che questo cambio di approccio preveda una piena applicazione del principio della neutralità tecnologica a tutta la legislazione climatica Ue, a partire da quella relativa al settore automobilistico e a quello dell’industria pesante, dove esiste un limite tecnico alla transizione e bisogna ragionare anche in termini di integrazione energetica. Lo ribadiamo: non può esistere solo l'elettrificazione per il futuro dell’auto, e tantomeno per quello del trasporto pesante o dell’industria, a partire da quella dell’acciaio, del vetro e del cemento. Dobbiamo al contrario rimanere aperti a tutte le soluzioni, come anche i biocarburanti sostenibili, che possono contribuire alla decarbonizzazione e che devono essere consentiti anche dopo il 2035».
Si tratta di una retorica vuota, che mira soltanto ad alimentare sfiducia verso la transizione ecologica e a minarne le basi invocando “flessibilità”. Un caso su tutti, quello dell’automotive. Nel 2023, con Meloni al Governo e l’Italia astenuta, il Consiglio Ue ha dato via libera definitivo ad azzerare le emissioni di CO2 di auto e furgoni nuovi, a partire dal 2035; nel rispetto della “neutralità tecnologica”, non c’è scritto da nessuna parte che le auto di nuova immatricolazione dovranno essere solo elettriche. L’obiettivo è quello di azzerare le emissioni, in base alle tecnologie disponibili: se qualcuno pensa di farlo coi biocarburanti, è libero di provarci.
Ormai non solo gli ambientalisti, ma le stesse case automobilistiche affermano che «attribuire la crisi del settore auto al Green deal è una narrazione fuorviante» e che «non vi è dubbio che il Green deal non sia la causa della crisi», come ribadito più volte anche dall’Unrae. Tra i motivi c’è piuttosto il forte aumento del costo delle auto tutte, mentre sale il rischio di povertà ed esclusione sociale nel Paese (che riguarda oggi 13,5 milioni di persone) e l’assenza di politica industriale da parte del Governo, che ha tagliato brutalmente le risorse del Fondo Automotive: sono passate dagli 8,7 miliardi di euro inizialmente previsti entro il 2030 a soli 450 milioni nel 2025 e 200 milioni annui per gli anni successivi.
Eppure, in Italia c’è fame di auto elettriche, nonostante la tassazione sulle ricariche le svantaggi. Il bonus lanciato ieri dal Governo è andato esaurito in poche ore, anche se i molteplici paletti che facevano temere alle realtà di filiera un ennesimo buco nell’acqua. E siamo solo all’inizio.
Quello verso l’auto elettrica è un cambiamento ormai inevitabile: la maggiore efficienza dei motori elettrici (dove quasi la totalità dell’energia arriva alla ruota, mentre nei motori a combustione oltre il 70% si perde in calore di scarto), la crescente economicità delle batterie, l’urgenza di una maggiore autonomia strategica dal giogo dei combustibili fossili e un’ormai ineludibile necessità di affrontare le crisi ambientali in atto – dalla crisi climatica all’inquinamento atmosferico, che da solo miete oltre 50mila vite l’anno solo in Italia, mentre le catastrofi naturali ci sono costate 235 miliardi di euro in 50 anni – indicano la strada verso il futuro.
Non a caso a livello globale un’auto su cinque di nuova immatricolazione è già elettrica, nonostante il rapporto in Italia sia ancora inchiodato a una su venti. Lo stesso vale per lo sviluppo delle rinnovabili: in Italia la disinformazione e i paletti normativi alimentati dal Governo Meloni frenano l’installazione degli impianti, che comunque hanno traguardato +4,5 GW da inizio anno (mentre l’esecutivo spera d’installare i primi 0,4 GW da “nuovo nucleare” entro il 2035), e a livello globale la capacità installata aumenterà di 2,6 volte al 2030 rispetto al 2022. Semplicemente perché conviene e abbassa il costo delle bollette, come ricordato ieri dalla Banca centrale europea e come mostrano casi empirici a partire da quello spagnolo.
Frenare la transizione ecologica potrà dunque essere utile per salvaguardare ancora un po’ le rendite di posizione dell’economia fossile e le disuguaglianze che gravano sull’intera società, ma il cambiamento è inevitabile. Si può provare a governarlo, portando benefici ai cittadini – le imprese italiane nell’ultimo anno cercavano 1,9 milioni di lavoratori verdi, la metà non è stata trovata –, oppure subirlo a vantaggio delle nuove potenze emergenti a partire dalla Cina. Il Governo Meloni ha scelto la seconda strada, e il conto grava su tutti noi.